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In un posto bellissimo

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VOTO: 5

The Marriage hearse

Nei suoi Sillogismi dell’amarezza Emil Cioran ha scritto: ”Perché «il carro funebre del Matrimonio» (the Marriage hearse)? Perché non il carro funebre dell’Amore? – Come mi spiace la restrizione di Blake!”
Se la folgorante rilettura dei versi di William Blake operata da Cioran ha sempre suscitato, almeno nel sottoscritto, una forma di sarcastica e amara complicità, inversa è stata invece la reazione allo spleen matrimoniale e alle inquadrature volutamente minimaliste del lungometraggio di Giorgia Cecere, In un posto bellissimo, algido teorema cinematografico sul venir meno del rapporto di coppia e sulla fragilità delle relazioni umane in genere. Perché allora è subentrato questo senso di rifiuto? Probabilmente perché, al di là di certi avvilenti squilibri interpretativi (con attori di provata bravura come Paolo Sassanelli e Piera Degli Esposti confinati in ruoli esili, mentre altri meno dotati si sforzano inutilmente di assicurare spessore a qualche personaggio chiave, come nel caso di Alessio Boni), il film della Cecere si colloca a ridosso di quell’irritante filone di pellicole nostrane, in cui l’autore punta con decisione al malessere esistenziale dei protagonisti (nella circostanza una pur convincente Isabella Ragonese), ma sente al contempo il bisogno di contornarlo di improbabili sottotrame con al centro immigrati, operai o altri sfruttati, quasi ad assicurare alla propria opera un timbro di (finto) impegno civile. Saremo anche blasfemi, ma a nostro avviso neanche l’ultimo Nanni Moretti, con quelle fiacche lotte sindacali inserite nell’altrettanto insipida cornice metacinematografica di Mia madre, ha saputo sottrarsi a tale trappola.

Ambientato nell’astigiano, In un posto bellissimo appare sin dall’inizio un poco appetibile infuso di noia di provincia, squallidi tradimenti coniugali consumati dal marito in ufficio, desiderio di evadere da una così grigia realtà (sono parte del gioco il tentativo di prendere la patente e l’incuriosirsi a qualche nuovo incontro) da parte di una protagonista, Lucia a.k.a Isabella Ragonese, che da un lato tenta di riavvicinarsi emotivamente al suo uomo sempre più “distratto” e dall’altro traduce in comportamenti eccentrici, spesso incomprensibili a chi le sta vicino, il proprio latente disagio.
L’occhio attento di Giorgia Cecere, cineasta formatasi con Gianni Amelio e attraverso le ottime sceneggiature poste al servizio di Winspeare (Sangue vivo, Il miracolo), nonché autrice di un esordio al lungometraggio interessante come Il primo incarico (sempre con Isabella Ragonese), nel caso specifico dà il meglio di sé quando deve stare incollato ai personaggi, metterne a fuoco le sottili inquietudini. E da ciò si alimenta quel punto di vista sul racconto, comprensibilmente improntato a una forma di complicità femminile, che a tratti può risultare anche efficace.
Ma poco alla volta avviene il naufragio. Lo si comincia ad avvertire, allorché il pedinamento di una Lucia la cui monotona quotidianità finisce per incastrarsi, un po’ casualmente, con quella più burrascosa del maghrebino che vende cianfrusaglie davanti al suo negozio di fiori, diviene il pretesto di uno scorcio sull’immigrazione e su quelle esistenze che vivacchiano ai bordi della comunità, così artificioso, stereotipato, banale, da suggerire una sorta di pietismo piccolo-borghese calato dall’alto.
Questo grossolano tentativo di porre a contatto vite tra loro distanti genera poi quei dialoghi, quei siparietti altrettanto forzati, che sfiorano il ridicolo quando l’imbarazzo per il comportamento di Lucia viene manifestato da un Alessio Boni perennemente imbronciato, piatto nella recitazione, svogliato nella dizione; sì, impacciato, ma mai quanto il bimbetto che interpreta il loro petulante rampollo, un ragazzino che qualche produzione cinematografica più accorta avrebbe fatto bene a non separare dai suoi compagni di giochi e, si spera, da qualche sana attività sportiva praticata nel doposcuola.

Stefano Coccia

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