L’armata degli eroi
Ad alcuni potrà sembrare una forzatura. Eppure, accostare l’ultimo lavoro di un appartato Maestro del cinema come Šarūnas Bartas a L’Armée des ombres (1969) di Jean-Pierre Melville ci è venuto spontaneo. Un po’ perché in fondo, al di là della matrice ideologica, le oppressioni si assomigliano tutte; e similmente può essere accomunato lo spirito dei combattenti per la libertà. Un po’ perché a prevalere nei due strazianti racconti cinematografici sono quei toni lividi, disperati, crepuscolari, scelti dai rispettivi autori per esprimere un sussulto di dignità e di fierezza che, pur affogato nel sangue dall’invasore di turno, avrebbe segnato la memoria delle generazioni a venire.
Ombre stanche. Ombre macilente. Ombre condannate a lungo all’oblio, nel così lirico e intenso In the Dusk (Sutemose, 2019), per quella “damnatio memoriae” imposta nel corso di qualche decennio dal regime sovietico, il quale però ci aveva messo diversi anni a reprimere la rivolta scoppiata nelle martoriate terre baltiche. Le coordinate spazio-temporali è lo stesso Bartas a offrircele, in una nota di regia che ci pare opportuno riprendere per intero: “Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con la vittoria degli Alleati, l’Unione Sovietica occupò nuovamente la Lituania dopo i Nazisti, e completò l’opera di assimilazione iniziata prima della guerra. Il presidente lituano scappò in Occidente, senza lasciare istruzioni… Parte dell’esercito lituano indipendente si addentrò nella foresta, dando vita a unità di resistenza organizzata attive fino al 1953, cui si aggiunsero molti cittadini lituani – alcuni per sfuggire alla coscrizione nelle forze militari sovietiche, altri per evitare l’arresto e la deportazione in Siberia… La resistenza nasce dalla speranza, una forza primaria che deve restare in vita, da qualche parte, nei momenti più bui. La storia lituana non finisce con la morte dell’ultimo partigiano. Quando la resistenza armata organizzata terminò nel 1953, la Lituania non fu distrutta, ma pesantemente danneggiata. La storia della resistenza lituana si concluse solo con la proclamazione dell’indipendenza nel 1991.”
Per rapportarsi a questo eroismo nella sconfitta, all’epica dolente dei fatti in questione, l’autore ha compiuto passi che abbiamo apprezzato molto: in particolare ci è piaciuta l’ibridazione del suo cinema degli esordi, così segnato dall’elemento naturale, da una dimensione quasi estatica, con quelle tensioni narrative in grado di fondere microstorie in chiaroscuro con il distruttivo impatto di un’incombente tragedia umana. Meno stilizzazione dell’impianto narrativo, magari, rispetto agli autentici, ineguagliabili capisaldi della sua filmografia, ovvero Lontano da Dio e dagli uomini (1996) e Freedom (2000). Ma neanche la verbosità eccessiva di Frost (2018), del quale ci erano sembrate irritanti anche certe letture faziose e retoriche del conflitto recentemente scoppiato in Ucraina. Al contrario In the Dusk finisce per soggiogare lo sguardo, proprio in virtù dell’equilibrio perfetto tra l’urgenza di ridestare quell’oscura pagina di Storia contemporanea e le scelte formali poste in atto per rappresentarla nella maniera più degna, sincera, possente.
“Tolta una divisa, sotto ce n’è sempre un’altra”, grossomodo era questa la lezione offerta dal Sergente Steiner alias James Coburn nel sottostimato capolavoro di Sam Peckinpah, La croce di ferro, allorché l’energico sottufficiale aveva provato a salvare un giovanissimo combattente sovietico nascondendolo tra le linee tedesche, con un’uniforme della Wehrmacht addosso. Stando poi a Cioran, per il quale “Dire: ho più simpatia per questo regime che per quell’altro significa fluttuare nel vago; più esatto sarebbe affermare: preferisco questa polizia a quell’altra“, quella sagace osservazione sull’interscambiabilità di certe divise sembrerebbe valere anche per le violenze degli eserciti occupanti. Conseguentemente il fatto che Šarūnas Bartas abbia optato per il diciannovenne Untė, quale testimone privilegiato nel 1948 delle continue angherie perpetrate dai comunisti ai danni della popolazione baltica, ha finito per ricordarci l’analoga scelta compiuta dal russo Elem Germanovič Klimov in Va’ e vedi (1985); una disturbante pietra miliare del filone resistenziale sovietico da noi recentemente scoperta, dove era però un adolescente bielorusso ad assistere impotente ai barbari massacri perpetrati nel proprio villaggio dalle SS. Ancora un parallelismo cinematografico, insomma, determinato da una tendenza comune ai diversi totalitarismi, quel fare letteralmente terra bruciata, estirpando con inaudita ferocia qualsiasi presenza umana venga ritenuta non assimilabile al progetto sociale della leadership.
Nel severo In the Dusk, di sicuro tra i più bei film in concorso al 32° Trieste Film Festival, assistiamo pertanto a una escalation di provocazioni, ingiustizie, delazioni, tradimenti, uccisioni sommarie e feroci interrogatori in stile NKVD, da cui il ridotto e malconcio nucleo di resistenti uscirà annichilito. A tale esito Bartas arriva comunque dopo aver affrescato con rara maestria la cornice ambientale e antropologica, forte di quella fotografia come sempre magnifica, sia che qualche luce fioca illumini i volti dei protagonisti in un interno, sia che tocchi alla ieratica bellezza del paesaggio circostante imporsi allo sguardo, quasi assorbendo l’amaro destino del popolo lituano. E le pupille attonite del giovane Untė sono così testimoni del momentaneo sfacelo, dall’orrenda segreta dove gli agenti sovietici hanno rinchiuso lui e altri prigionieri. Eppure il regista ci regala un’ultima ripresa verso il cielo, fuori da quelle sbarre, dove il malinconico volo di alcuni uccelli nell’aere grigio pare presagire il duro cammino di una nazione per riacquisire la libertà.
Stefano Coccia