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In Fabric

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VOTO: 6

Il diavolo non veste Prada

La forma prima della sostanza, l’estetica prima del contenuto, l’immagine prima della scrittura. Chi conosce Peter Strickland e il suo modo di fare e concepire la Settima Arte sa a cosa va incontro quando si approccia ad un film che ne porta la firma in calce. Nel suo cinema la confezione tende a prevalere sulla narrazione e sul disegno dei personaggi, arrivando persino a fagocitare il tutto a favore di una messa in quadro che vuole calamitare a sé l’occhio dello spettatore, quanto basta per “ubriacarne” la visione con uno sequela continua di inquadrature stilisticamente, figurativamente e geometricamente ricercate. Non si può dire che nell’approccio visivo del cineasta britannico non vi sia una cura formale degna di nota, pregevolissima nella fattura, nell’eleganza e nella composizione. Di questa cura gliene va riconosciuto il merito in quanto marchio di fabbrica che rende le sue pellicole immediatamente riconoscibili e a lui riconducibili per quanto concerne la paternità. Questo è probabilmente il motivo che ci spinge a confermare il giudizio espresso nel 2014 sul precedente The Duke of Burgundy.

In Fabric, la sua ultima fatica dietro la macchina da presa presentata nella sezione “After Hours” della 36esima edizione del Torino Film Festival, non fa alcuna eccezione alla regola, assecondando in tutto e per tutto il suddetto modus operandi. Croce e delizia di un cinema che non conosce mezze misure, tanto da spingere il fruitore a scegliere da quale parte stare: da quella di chi ritiene questa e le altre nient’altro che dei vuoti a perdere solo da ammirare, oppure da quella di chi prova a scavare sotto quelle superfici alla ricerca di significati, temi e stratificazioni. Sinceramente, ieri come oggi, non riusciamo ancora a capire dove andare a collocarci, perché la visione dei film di Strickland – compreso quest’ultimo – esercitano su di noi un fascino e un’attrazione che ci impedisce di demonizzarli, rispedendoli al mittente. Davanti a In Fabric, infatti, proviamo la medesima difficoltà, anche se qui avvertiamo una presenza ancora più ingombrante e prepotente di una regia che alla lunga arriva a sfiorare l’irritante sfoggio di un’estetica fine a se stessa. Un fastidio, al contrario, che non si era palesato ai tempi degli esordi con Katalin Varga e Berberian Sound Studio, laddove la scrittura riusciva in qualche modo a ritagliarsi un suo spazio contribuendo alla causa.

Qui lo script, che narra le disavventure di coloro che di volta in volta entrano in possesso di un abito rosso straordinariamente bello ma dai poteri oscuri e demoniaci, sembra quasi un pretesto per l’autore per dare libero sfogo alle sue ossessioni morbose, feticiste e voyeuristiche, ma anche per ricordare al pubblico il gusto personale che ne contraddistingue lo stile e che In Fabric, così come in The Duke of Burgundy, mescola di volta in volta con echi e suggestioni che riportano la mente ad un certo cinema di matrice pseudo-horror degli anni Settanta-Ottanta e ai colori e alle atmosfere da giallo all’italiana. In questo modo, Strickland condisce il tutto con humour very british, eleganza, sette demoniache e perversioni segrete, al fine di ottenere un’opera che prova a suo modo a puntare il dito contro il consumismo sfrenato, la spersonalizzazione del mondo del lavoro e l’esasperato bisogno di apparire. Un magma di temi del quale si intravede la presenza in chiave metaforica, ma del quale al contempo si avverte il tentativo faticoso di farsi largo, lo stesso che si nota nel vedere il gruppo di bravi interpreti (tra cui Marianne Jean-Baptiste e Hayley Squires) fare i conti con il protagonismo del regista che li ha diretti.

Francesco Del Grosso

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