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Il vizio della speranza

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VOTO: 6

Madre certa, padre ignoto

Dopo Indivisibili, che tanto ci aveva convinto nella forma e nella sostanza narrativa, ci eravamo illusi che Edoardo De Angelis con il suo film successivo decidesse di voltare in parte o totalmente pagina. Il vizio della speranza, presentato in anteprima italiana alla 13esima Festa del Cinema di Roma prima dell’uscita nelle sale nostrane il 22 novembre e dopo le apparizioni nelle line up dei festival di Toronto, Tokyo e Londra, ci dice esattamente il contrario.
Croce e delizia del film è la reiterazione di atmosfere, situazioni e topografie che il cineasta partenopeo ha già mostrato e sviscerato nelle sue pellicole precedenti, che se da una parte può rappresentare un’ancora di sicurezza alla quale aggrapparsi nei momenti di difficoltà, dall’altra può apparire come il segnale di una volontà di non non volere variare. In tal senso, l’affidarsi ciclicamente a stilemi o a elementi ricorrenti, tanto visivi quanto narrativi, permette al cineasta di turno di mantenersi a galla in una sorta di comfort zone e di rendere riconoscibile agli occhi del pubblico un modus operandi, ma dall’altra non consente a lui e al suo cinema di evolversi. Il tallone d’Achille dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di De Angelis sta dunque nella sensazione di déjà vu che la fruizione lascia nello spettatore di turno, in particolare in quello che da qualche anno a questa parte si è misurato e si sta misurando con le sue opere. Il vizio della speranza non va oltre il già mostrato e in parte detto: religione, rapporto tra vita e morte, tra bene e male, legami familiari. Nel primo caso riconosciamo sin da subito la sua cifra stilistica sia nella messa in quadro che nella messa in scena, come sempre pregevole nella confezione (da segnalare la fotografia di Ferran Paredes Rubio e le musiche di Avitabile) e nelle soluzioni formali (l’uso della steadycam per i piani sequenza in pedinamento), mentre nel secondo ci troviamo ancora una volta catapultati in una terra di nessuno popolata dagli ultimi e dai reietti della società, laddove il cineasta tra fango, degrado, montagne di rifiuti, lamiere e ruggine, insegue e intercetta barlumi di umanità e speranza. Ed è proprio quest’ultima l’oggetto astratto e immateriale della ricerca del suo nuovo film, insieme a quello che mano a mano va delineandosi come il baricentro tematico e universale che alimenta la scrittura, ossia la maternità negata e quella voluta.
De Angelis va a cercare tutto questo nella vita di Maria, la cui esistenza trascorre un giorno alla volta, senza sogni né desideri, prendendosi cura di sua madre e al servizio di una madame ingioiellata. Insieme al suo pitbull dagli occhi coraggiosi, Maria traghetta sul fiume donne incinte, in quello che sembra un purgatorio senza fine. È proprio a questa donna che la speranza un giorno tornerà a far visita, nella sua forma più ancestrale e potente, miracolosa come la vita stessa. Perché restare umani è da sempre la più grande delle rivoluzioni.
Tra richiami e simboli iconografici, tra amore e violenza, Il vizio della speranza trova momenti di grande emozione soprattutto dal secondo atto in poi, a conti fatti più scorrevole e meno incerto e frammentato del primo, dove la scrittura al contrario sembra fare tanta fatica a imboccare la retta via. Brava Pina Turco, qui nei panni della protagonista dopo avere indossato quelli scomodi della moglie di Ciro nella prime due stagioni di Gomorra – La Serie, a restare sempre in equilibrio e credibile anche quando la corda si fa più sottile e meno sicura. Per chi l’ha diretta, invece, a questo punto urge un cambiamento di rotta per capire dove il cinema di De Angelis può arrivare, perché dove si trova in questo momento lo abbiamo visto ampiamente in tre film e ½ se contiamo l’episodio del corale Vieni a vivere a Napoli dal titolo “Magnifico Shock”. E per farlo, forse, l’unico modo è quello di allontanarsi da ciò che ha realizzato sino ad oggi per andare a sperimentare altro.

Francesco Del Grosso

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