La Storia ai tempi del Grande Fratello
Due grandi interpreti, una regia tutt’altro che ineccepibile al loro servizio nonché una sceneggiatura altalenante tra retorica da grande evento e minimalismo non sufficientemente umanista. Questi gli ingredienti de Il viaggio (The Journey, in originale), lungometraggio battente bandiera britannica in fase produttiva – e si avverte – per l’occasione affidato al, come di consueto, anonimo Nick Hamm posizionato dietro la macchina da presa. L’impressione, dunque, è che nel mettere in scena, con ampie licenze poetiche, il fatidico incontro tra il reverendo Ian Paisley – leader degli unionisti protestanti, morto nel 2014 all’età di 88 anni – e Martin McGuinnes – a propria volta a capo del Partito Repubblicano separatista del Sinn Féin, di religione cattolica, scomparso in questi giorni a soli 66 anni – si sia fatto un po’ troppo affidamento sulle notevoli doti dei due attori, cioè Timothy Spall (Paisley) e Colm Meaney (McGuinnes). Il cui talento è senz’altro fuori discussione e tuttavia avrebbe avuto bisogno di un maggior “supporto cinematografico” da regia e script per sostenere appieno il peso di un’opera dal risultato inferiore alle attese.
Il fondamentale incontro tra due personaggi ideologicamente agli antipodi avrebbe potuto essere osservato, analizzato, vivisezionato da una prospettiva formalmente surreale capace di donare mistero e poesia a due uomini capaci di venirsi incontro, tra mille compromessi, al fine di scrivere una pagina di pace lungimirante e perciò duratura. Al contrario, si è preferito realizzare un film adatto ad ogni palato, disperdendo cammin facendo quella carica emozionale che si intravvedeva dalla prime battute del film grazie ad un background storico stagliato sullo sfondo del sanguinoso conflitto civile nordirlandese. Il viaggio in auto avrebbe potuto dunque assumere i toni intimi e claustrofobici del dramma assoluto; la pioggia scozzese – la location delle trattative fu St. Andrews, scelta come territorio neutrale – e la maestosità della Natura divenire cornice quintessenziale nel contesto di due uomini alla ricerca di qualcosa d’impossibile: cancellare cioè decenni di violenza e sangue, spesso innocente, versato. Invece si eccede in simbolismi nel tragitto fisico ed interiore dei due (la chiesa in stato di abbandono, il vecchio cimitero), rendendo l’insieme di facile decifrazione e piuttosto scontato.
Resta allora la sensazione non troppo piacevole di un’opera costruita con l’unico scopo di catturare la benevolenza del pubblico, dove l’altrove eccellente Timothy Spall tende a tratti a gigioneggiare nella costruzione di un personaggio anti-clericale e integralista a tutto tondo, mentre più apprezzabile per senso della misura risulta l’interpretazione di Colm Meaney, “combattente” disposto a cambiare idea in nome della convivenza pacifica. Il tutto, unico spunto davvero interessante ma non degnamente approfondito, costruito, osservato e spiato dalle gerarchie britanniche, con un Tony Blair ridotto a maschera grottesca in testa. Una sorta di show da Grande Fratello preordinato dai vertici che dimostra una volta di più come nulla, relativamente ai grandi eventi mondiali, accada spontaneamente. Per il resto l’ordinaria amministrazione, sia pur in confezione non deprecabile in toto, di una ricostruzione storica in stile The Queen di Stephen Frears (2006) senza l’acutezza in fase di sceneggiatura di un Peter Morgan ma con, in compenso, la figura simbolica del cervo che pare essere stata catapultata di peso da un film all’altro. Ulteriore testimonianza di quanto possa essere facile imitare opere di un certo spessore mentre la difficoltà maggiore consiste nell’arricchirle con qualcosa di realmente originale che le renda in grado di brillare di luce propria. E quest’ultima eventualità, purtroppo, ne Il viaggio proprio non si verifica. Nemmeno in sporadici frangenti.
Daniele De Angelis