Il Teatro può insegnarci a resistere
Quando si scrive una recensione bisognerebbe essere imparziali, oggettivi, anche se, proprio in virtù del taglio insito nell’articolo, c’è sempre una parte di soggettività, il punto di vista del giornalista-critico che, in qualche modo e umilmente, emerge (e, il più delle volte, si cerca di farlo tra le righe).
Rendere quello che ha provocato il docufilm di Vinicio Marchioni (da un’idea condivisa con Milena Mancini) non è affatto semplice – e saremo mancanti pur mettendocela tutta, probabilmente il bello è anche queso. Ci viene quasi da partire proprio dal titolo così calzante: Il terremoto di Vanja, alla ricerca di Čechov… Alla conclusione della visione, sulle note di Pino Marino (che magari avrete già ascoltato assistendo allo spettacolo “Uno zio Vanja”) potrete ritrovarvi con le lacrime che rigano spontaneamente il vostro volto senza che neanche ve ne siate accorti prima, come se ogni ogni parola, ogni fotogramma avesse seminato all’interno del cuore di ognuno di noi fino a quel punto fino a far «spostare il cuore dalla rabbia e piangere vetro»
Credeteci, se già la pièce (qualora abbiate avuto la fortuna di assistervi) aveva la potenza della semplicità di far venire la pelle d’oca (e non eravamo ancora in tempo di covid), il docufilm assume, in questo momento storico-culturale e nella condizione – anche di isolamento – che stiamo attraversando, una forza ancora più dirompente da restare col magone anche dopo alcuni minuti dalla visione, oltre che con tante domande e la voglia enorme di ritornare al contatto umano in teatro. Non bisogna però ‘spaventarsi’, anzi, dovremmo ringraziare per ciò che suscita anche perché, parallelamente, comunica una ‘voglia di ricerca’ non solo di Čechov, ma anche di se stessi.
«Dedicato a tutte le famiglie vittime del terremoto che ancora resistono…e a tutti i teatranti che resisteranno sempre» è la didascalia finale. Impossibile non pensare alla condizione culturale, artistica e umana che stiamo vivendo, al limbo in cui molti attori – in particolare teatrali (i set, con tutte le precauzioni e pure le difficoltà del caso, stanno proseguendo) – si sono ritrovati, o peggio, a quel senso di sospensione provocato improvvisamente da un dpcm arrivato da un momento all’altro (certo, tecnicamente, per tutelare la salute dei cittadini) che ha decretato per ben due volte nel corso di questo anno di pandemia la chiusura delle sale teatrali, cinematografiche e di musica. Gli artisti in generale e, nello specifico, chi faceva solo teatro – forse i più colpiti – stanno cercando di re-inventarsi e soprattutto di resistere.
Verrebbe da dire che quel terremoto voluto dal regista e attore romano (curando l’adattamento con M. Mancini e l’autrice Letizia Russo) si sia verificato con ancora più intensità negli ultimi mesi. Alle macerie provocate – e non ancora ricostruite dei tanti sismi abbattutisi sul nostro Paese – si aggiungono quelle che sta lasciando dietro di sé il covid-19, in primis come perdite di vita e, in secondo luogo, come conseguenze psicologiche, economiche, professionali sull’esistenza di chi resta.
«Questo grande punto di domanda sulla ragione di vivere. Anche Strindberg, Sofocle se lo pongono senza rispondere», asserisce il regista russo Andrej Končalovskij (di cui si vede anche un estratto della sua messa in scena di “Zio Vanja”. Il terrremoto di Vanja presenta, volutamente, una struttura in atti – sempre introdotto da una frase del grande drammaturgo russo – e una grande cura nella messa in quadro che però non ha mai un sapore di ‘finzione’ (ad esempio le immagini dalla Russia le osserviamo, in alcuni momenti, come se scorressero i fotogrammi di una pellicola). Assistervi «è come osservare, stando nel ruolo di una mosca, alcuni mesi di vita di una famiglia che ha delle dinamiche di conflitto fortissimo» (prendendo in prestito le parole di Letizia Russo); ma non solo, ci vengono donate delle chicche vere e proprie e ancor più un mettersi a nudo con tutto l’amore per il Teatro, l’Arte e i tanti interrogativi che solo gli artisti (e non tutti lo fanno) possono e vogliono rilanciare.
Attraverso le prove e la tournée dello spettacolo tratto da ‘Zio Vanja’ di Anton Čechov (con V. Marchioni, Francesco Montanari, M. Mancini, Lorenzo Gioielli, Alessandra Costanzo, Nina Torresi, Nina Raia, Andrea Caimmi) fino alla replica al Teatro Ridotto de L’Aquila, Vinicio Marchioni ci accompagna nella provincia italiana distrutta dal terremoto e nei luoghi dello scrittore russo (come Taganrog e Melichovo). Due anni di riprese nei maggiori teatri italiani, nelle zone terremotate di Onna, Poggio Picenze, L’Aquila, nella provincia marchigiana a San Genisio, dieci giorni di riprese in Russia.
Marchioni apre allo spettatore il laboratorio creativo delle prove dello spettacolo, mostra il dietro le quinte del suo fare teatro e anche l’attesa e le emozioni degli interpreti prima che tocchi il loro turno di entrare in scena, insegue la sua passione/ossessione per Čechov fino ai luoghi più importanti nella vita dello scrittore russo. A undici anni dal terremoto che ha distrutto L’Aquila e a quattro da quello di Amatrice per indagare l’immobilità italiana post-terremoto attraverso lo sguardo tragicomico di Čechov, mostra al pubblico la straordinaria forza umana dello scrittore e riporta l’attenzione sulle persone che ancora oggi combattono contro i danni subiti da quei tragici eventi.
Grazie al dialogo ideale tra Marchioni e Čechov – a cui ha prestato la voce Toni Servillo – all’alternanza dei luoghi e delle situazioni filmate ora a colori, ora in bianco e nero (le tappe in Russia sono rese con un b/n ben curato, che torna anche in alcuni nostri luoghi, ma non aggiungiamo altro) e ai contributi di A. Končalovskij, Gabriele Salvatores e Fausto Malcovati (ci sembra doveroso citare anche la partecipazione di amichevole di Marco Polci, Daniela Polci, Dario Polci, Adriana Marinelli e Giulia Polci), il documentario prende per mano lo spettatore e lo conduce in un molteplice viaggio: all’interno del lavoro teatrale, nei luoghi del terremoto, nelle parole e nell’anima di Anton Čechov.
Il terremoto di Vanja è un docufilm che mescola generi e linguaggi; ma è soprattutto un semplice atto d’amore, verso il teatro, la letteratura e gli esseri umani che resistono. L’Aquila (come leggerete più avanti) è stata la tappa probabilmente più forte, che ha messo anche ‘in crisi’ il ruolo dell’artista. «Quella sera, per il pubblico che per noi sul palco, c’era il dover andare avanti. Gli avevamo fatto da specchio, una condivisione reale: il teatro come nella vita».
«Il pubblico piange ai miei lavori, altri mi hanno rivelato la stessa cosa; ma io non li ho scritti per ottenere questo risultato… Io volevo dire onestamente alla gente: per favore rendetevi conto che la vostra esistenza è grama e desolata. L’importante, per me, è che la gente si renda conto di ciò e che, quando lo farà, riuscirà a crearsi un altro e migliore modo di vita. Io non vivrò abbastanza per vederlo, ma so che esso sarà completamente diverso dal nostro. Non mi pare che ci sia motivo di piangere per questo… Ho l’onore d’essere, con rispetto, il vostro Anton Čechov». Lui aveva il dono di saper mettere nero su bianco ciò di cui dovevamo e dobbiamo prendere consapevolezza, i registi che lo hanno messo in scena – tra cui lo stesso Marchioni – lo hanno saputo restituire, ma chissà cosa scriverebbe oggi sul covid e su come siamo «l’uomo più ironico del mondo degli ultimi due secoli» secondo la voce autorevole del prof. Malcovati. Chissà come ci guarderebbe? Quel che è, a nostro modesto parere certo, è che le sue riflessioni e i suoi lavori sono più vivi e validi che mai. «All’inizio di questo viaggio dentro Čechov credevo di avere una meta da raggiungere, al massimo un successo da ottenere grazie allo spettacolo “Uno Zio Vanja”, se fosse andato bene. Poi l’ho fatto e, dopo gli applausi alla fine della tournée, mi sono ritrovato immerso in quel silenzio assordante in mezzo alle macerie del terremoto che avevo voluto mettere in scena. Avevo speso ogni sera degli ultimi tre, quattro anni a leggere di Čechov, mi ero fatto un’idea abbastanza precisa su di lui e sulla sua opera; ero riuscito a farmi seguire da otto attori, quattro tecnici, due produzioni (con la produzione esecutiva di Maurizio Vassallo e Pepsy Romanoff della casa di produzione Except, con la partecipazione di Anton – creata dagli stessi Marchioni e Mancini, adesso divenuta Anton Art House – e la collaborazione di Rai Cinema e Simone Isola, nda) che mi hanno dato fiducia per mettere in scena una mia visione, che a oggi considero folle: quella di raccontare le crepe dell’Italia attraverso i temi di Čechov. E quelle crepe riviste prima della recita al teatro ridotto de L’Aquila mi hanno preso a calci dentro all’anima. Cosa volevo cambiare? Che senso aveva il mio spettacolo davanti a quelle macerie? Con quale coraggio andare in scena proprio a L’Aquila e fargli rivivere quella tragedia? […] Quell’abbandono e quella desolazione della provincia italiana post terremoto che avevo sovrapposto a quelli della provincia russa di Čechov mi si paravano davanti con tutta la forza distruttiva del terremoto che li aveva causati. Per la prima volta in vita mia ho sentito di essere completamente inutile, che fare l’attore o il regista fosse completamente inutile. E per la prima volta ho sentito di essere perfettamente in asse con un personaggio che facevo, quello Zio Vanja che incarna tutto il fallimento possibile. Ma a che prezzo? Sono tornato a casa dopo la tournée, e anziché buttare tutti gli appunti come faccio di solito alla fine di un lavoro, li ho riaperti e riletti tutti da capo. Ho avuto la sensazione fisica di essere diverso rispetto a quello che aveva scritto quegli appunti due, tre o quattro anni prima. Credo migliore, non so spiegare perché. Ho chiuso tutto e sono stato in silenzio per un po’. La verità è che mi mancava Čechov, mi mancava come un amico lontano che non ti scrive più. Allora ho deciso di andare io da lui. Per conoscerlo ancora meglio, o anche solo per ringraziarlo per avermi insegnato a non giudicare le mancanze e fallimenti, ma ad amarli. I miei e quelli del prossimo» (dalle note di regia).
«Che senso ha fare teatro caro Anton? Tu, in una lettera scrivi: “fuori piove”. Che senso ha?» si ripete Marchioni. «Oggi sono stato al Teatro d’Arte di Mosca […] c’erano i macchinisti che stavano montando una scenografia, chissà di quale spettacolo, quale autore, quali attori avrebbero animato quella scena cercando di dire qualcosa a un pubblico? Forse, il senso di stare lì sopra non è farsi vedere o parlare a un pubblico, ma è quello di parlare per conto e a nome di tutte quelle persone che non hanno voce o che non possono più parlare. Di fare da tramite a qualcosa che è infinitamente più grande di noi e cercare di farlo arrivare a un pubblico attraverso l’artificio, il gioco del teatro».
Non è semplice mettere un punto di ‘fine’ a questo articolo, tante sono stratificazioni, gli incroci, gli incontri e le implicazioni emotive. L’unico modo per lasciarlo ‘aperto’ è suggerirvi di effettuare questo viaggio e poi continuare ad andare (comprenderete, guardando, a cosa ci riferiamo).
Dopo esser stato presentato in anteprima mondiale all’edizione 2020 della Festa del Cinema di Roma, finalmente è arrivata la possibilità di vederlo. «La nuova piattaforma di contenuti in streaming per un tempo libero di qualità ideata da Nexo Digital, Nexo+ Ha deciso di far debuttare questo lavoro, proprio il 27 marzo. Il terremoto di Vanja, alla ricerca di Čechov un docufilm di Vinicio Marchioni, con la produzione esecutiva di Maurizio Vassallo e Pepsy Romanoff della casa di produzione Except, con la partecipazione di Anton e la collaborazione di Rai Cinema e Simone Isola. Un omaggio al teatro, ai suoi protagonisti e ai suoi spettatori, in attesa di poter tornare presto a vedere gli spettacoli dal vivo» (dalla nota ufficiale).
Maria Lucia Tangorra