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Il regno d’inverno

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VOTO: 8

Perduti nel bianco

C’è un fantasma cinematografico, uno spirito la cui presenza aleggia per gran parte dei quasi 200 minuti di durata dello splendido Il regno d’inverno (ben più aderente il titolo internazionale, Winter Sleep) di Nuri Bilge Ceylan. Forse inaspettato, vista l’ambientazione nella remota Cappadocia turca. Assai meno, se si considera il rigore che ha sempre caratterizzato il cinema dell’autore dello straordinario C’era una volta in Anatolia. Per modus operandi filmico – e forse non solo per quello – Il regno d’inverno sembra un meraviglioso film alla Ingmar Bergman, perfettamente aggiornato ai tempi che viviamo. E questo non tanto perché alla fine trattasi di un raffinatissimo kammerspiel composto prevalentemente da dialoghi pregnanti, con pochissime escursioni esterne della macchina da presa ad immortalare fatti che fungano da motore narrativo alla trama; quanto per la capacità di quegli stessi dialoghi di lasciar trapelare l’essenza dei personaggi presenti nel lungometraggio, mettendone in luce i rispettivi caratteri attraverso un lavoro di scavo psicologico che provoca nella spettatore una grandissima, talvolta addirittura lacerante, tensione emotiva.
Il regno d’inverno è un’opera incentrata su personaggi – magnificamente interpretati da un cast di eccelsa bravura – più veri del vero, i quali possono apparire diversi a seconda della prospettiva da cui li si osserva, quasi si trattasse di un film tridimensionale nell’anima. Aydin, il personaggio principale, è un ex attore di famiglia ricca che ora gestisce un albergo nella parte di una regione, la Cappadocia appunto, ancora selvaggia e non ospitale dal punto di vista climatico. Sposato con Nihal, donna molto più giovane, vive il momento più critico della loro unione. Con loro anche la sorella di lui appena divorziata, a completare il quadro di una situazione interpersonale a continuo rischio di ebollizione. Ebbene Aydin appare a chi guarda figura impossibile da giudicare, come sempre dovrebbe accadere a personaggi che, pure sul grande schermo, sono fatti di carne, sangue e contraddizioni. Un “camaleonte” che in alcuni momenti sembra un sincero progressista appartenente alla classica borghesia illuminata, in altri retaggio appena modernizzato di quel maschilismo patriarcale di cui si percepiscono con nitore gli effetti devastanti, soprattutto nel suo comportamento soffocante nei confronti della giovane e bella moglie. La quale peraltro, con disperazione non comune, cerca invano una sorta di riscatto morale dal senso di colpa scaturito dal proprio agio economico – di luce riflessa, poiché dipendente dal consorte – in presunte buone azioni che servirebbero solo a tacitare temporaneamente la sua coscienza inquieta in cerca di una difficoltosa via di realizzazione. Ed è in particolare in questo frangente narrativo, in cui mette a nudo in maniera impietosa differenze di classe sociale da sempre esistite, che Il regno d’inverno si fa film universale, rompendo i confini metaforici di un’ambientazione che in altre circostanze del film gioca un ruolo decisivo. Senza alcuna coloritura politica superflua, Ceylan ci racconta di ricchi e poveri, di cacciatori e cacciati (da casa), di bambini già pronti per il rancore eterno verso il padrone quasi si trattasse di due entità tra loro “aliene” ben distinte, condannate a non comprendersi mai per troppo manifesta differenza di mentalità. Dove anche un gesto di generosità, nelle intenzioni, può essere recepito dalla controparte come un tentativo di umiliazione, di spoliazione dell’unico bene prezioso rimasto: la dignità. Nella sequenza più forte e significativa de Il regno d’inverno i soldi vengono bruciati perché un background millenario lo impone, persino in un’epoca dove compaiono computer e internet, strumenti che dovrebbero in teoria ridurre le differenze di cultura e classe.
L’opera di Nuri Bilge Ceylan – meritatissima Palma d’Oro a Cannes 2014 – è di una bellezza così profonda da far star male. Perché racconta di anime smarrite nel bianco inverno del nulla azzerando qualsiasi distanza geografica. Perché pone un enorme punto di domanda sulla possibilità effettiva di comprensione reciproca famigliare in ambito borghese (ancora una tematica tipicamente bergmaniana, anche se l’ispirazione letteraria proviene da Cechov, come affermato dallo stesso regista) e si rende amarissimo apologo sulla convivenza sociale. Nell’uno e nell’altro caso forse possibile solamente con un palese atto di sottomissione: al Destino, all’inevitabile scorrere del tempo. Alla legge atavica del più forte; che qualche volte non è chi lo sembra in apparenza, come testimonia nel finale la struggente lettera simbolica scritta da Aydin e indirizzata a sua moglie. Una dinamica di coppia che non deve essere estranea, ipotizziamo, a Nuri Bilge Ceylan, il quale ha scritto la sceneggiatura de Il regno d’inverno assieme a sua moglie Ebru.
Un profumo di vita vissuta che fuoriesce dallo schermo, affascinante anche quando non piacevole.

Daniele De Angelis

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