L’arte vive nella stessa strada della vita, ma in un luogo più segreto
È in uscita nel 2024 il nuovo lungometraggio del prolifico Fabio Del Greco. Si intitola Il poeta perduto e lo abbiamo potuto vedere in anteprima. Il cineasta nonché artefice della piattaforma Indiecinema (un “porto” dove sono approdate negli ultimi anni diverse altre opere cinematografiche indipendenti, italiane e non) pare tornare qui ad alcuni snodi cruciali della sua poetica, a determinati luoghi fisici già presenti nella sua filmografia (gli stabilimenti balneari di Ostia, gli spazi culturali della capitale abitati da “cinematografari” o da altri velleitari dell’arte, annoiati, modaioli e fondamentalmente asserviti al sistema) ma da una prospettiva in parte nuova, diversa, cui non sono certo estranee l’amarezza e il disincanto per quanto accaduto in Italia dal 2020 in poi.
Veniamo però ora alla “fredda cronaca”. E lo facciamo pescando direttamente da note di regia e sinossi del film: “Dante Mezzadri vuole rivedere un vecchio amico, soprannominato l’Iguana, che ha perso di vista da molti anni, e che è riuscito a far diventare la loro comune passione giovanile per la poesia in un lavoro, diventando scrittore e poeta famoso. L’uomo fugge dalla sua vita borghese e dalla moglie per vivere senza fissa dimora sul litorale romano, stampa e tenta di vendere le sue raccolte poetiche. La notte dorme in un parco di vecchi carri allegorici di carnevale, dentro carro armato di cartapesta, e attende l’occasione per incontrare il vecchio amico, il quale però non si presenta mai agli appuntamenti nei luoghi che frequentavano da giovani, ora in rovina.”
Un assunto quasi “beckettiano”, quello qui sommariamente descritto, che attraverso le peregrinazioni di Dante Mezzadri (impersonato naturalmente dallo stesso Fabio Del Greco, come a sottolineare un’ulteriore identificazione con la rivolta estetica ed etica di cui il protagonista si fa portavoce) conduce a una serie di incontri, epifanie, contrasti, attraverso i quali il suo desiderio di condividere momenti di poesia e riflessioni più profonde (condensati peraltro nell’austero libricino poetico che comincia a portarsi dietro, nello speranza di venderlo in modalità “vuo cumprà” a qualche spirito più sensibile) finisce per scontrarsi con la crudezza, il menefreghismo e l’aridità umana della realtà circostante, anestetizzata ormai dalle più folli derive consumistiche e da desideri effimeri.
In tali circostanze avviene peraltro uno scarto drammatico non da poco. Per quanto Fabio Del Greco appaia qui come altrove un po’ troppo “soft” e contenuto nel mettere in scena le parti più ruvide e persino violente della narrazione (forse l’unico limite da noi intravisto in questo sincero, appassionato lavoro, laddove però risulta chiaro che all’autore interessi più il significato di certe violenze che la loro immediata resa filmica, quale può essere un pestaggio ai danni del protagonista), sono piuttosto serie le conseguenze cui va incontro il sempre più sconsolato Dante Mezzadri, allorché si lascia convincere da alcuni soggetti poco raccomandabili a sostituire i fallimentari tentativi di vendere il proprio libro di poesie con lo spaccio della senz’altro più redditizia (ma devastante per il fisico e per la mente) “pillola del cannibale”. La valenza metaforica di tale snodo narrativo è evidente e viene poi espressa nei dialoghi coi vari personaggi coinvolti anche piuttosto bene, attraverso una sorniona e comunque penetrante ironia.
Collezionata non senza qualche residuo di amarezza questa allucinante (e per i malcapitati acquirenti anche allucinogena) esperienza, al povero Dante (nomen omen) non resterà che cercare nuovamente un contatto con la poesia vera. Tutto ciò, mentre le immagini rallentate e patinate di alcuni giovani, apparentemente ben integrati in un sistema lavorativo fortemente standardizzato, fanno da ironico contrappunto alla sua odissea. Ma al termine di questo stralunato racconto di formazione altri incontri lasceranno intravvedere possibili sentieri da percorrere. Perché se Fabio Del Greco si conferma sempre molto caustico e irriverente nell’allestire la pars destruens del discorso, ciò cui punta è anche una pars costruens in cui il senso vero dell’arte possa incanalarsi lungo strade magari tortuose, ma decisamente più oneste e affidabili, pur di emergere…
A saldare le varie parti del discorso una programmatica autarchia produttiva che è però anche il riflesso di una piccola factory, costruita nel corso degli anni, della quale tanto Silvana Porreca che l’affermata attrice Chiara Pavoni fanno parte da tempo; ma che vede di volta in volta qualche positivo innesto, nel caso in questione l’apporto rude, deciso e sanguigno della “new entry” Piero Olivieri, attore precedentemente apprezzato nel western Oro & piombo e in altre azzeccate, ruspanti operazioni di genere.
Stefano Coccia