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Il nome del figlio

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VOTO: 5.5

Metti una sera a cena

Se bastasse prendere in prestito il plot di una commedia campione d’incassi francese per farne un remake capace di bissare il successo anche al box office italiano, come avvenuto qualche stagione fa con l’acclamato Benvenuti al Sud, allora molti sceneggiatori, registi e soprattutto produttori nostrani potrebbero smetterla di affannarsi a cercare storie e personaggi da portare sul grande schermo, perché sarebbe sufficiente andare a spiare cosa bolle in pentola nella cucina dei vicini. Tale scelta lascia tanta amarezza in bocca ripensando ai bei tempi che furono, quando era la commedia made in Italy a calamitare a sé l’attenzione delle cinematografie di mezzo mondo, mentre da qualche decennio a questa parte il vento ha iniziato a spirare in altre direzioni e la nostalgia nei confronti di quello che eravamo in grado di realizzare ha preso definitivamente il sopravvento.
Dopo il trionfo al botteghino della pellicola di Miniero (con tanto di sequel), tenendo ben presente proprio questa tendenza, sorprende il fatto che nessuna produzione battente bandiera tricolore si sia ancora avventurata nel progetto di un remake di un altro successo transalpino come Quasi amici, ma siamo sicuri che primo o poi l’operazione vedrà il buio della sala. Intanto, c’è chi non ha perso tempo e cavalcando l’onda ha deciso di tentare la fortuna riportando per la seconda volta al cinema, nel giro di due anni, la fortunata pièce teatrale di Alexandre De la Atellière e Matthieu Delaporte dal titolo “Le prénom” che nel 2012, per mano degli stessi autori, è diventata l’altrettanto fortunata commedia Cena tra amici. Quello affidato alle mani di Francesca Archibugi – che finalmente torna dietro la macchina da presa dopo un letargo durato sei lunghissimi anni (Questioni di cuore) -, infatti, non va considerato un rifacimento del film, ma un nuovo adattamento dell’opera teatrale, che la regista romana e Francesco Piccolo hanno plasmato a proprio piacimento, aggiungendo alla narrazione del presente un piano temporale proveniente dal passato. Ed è questo doppio binario narrativo, che scorre parallelamente intersecandosi, la differenza sostanziale che separa la versione italiana, battezzata Il nome del figlio, dalla matrice originale. Ciò consegna ai personaggi il rispettivo bagaglio esistenziale e consente alla storia di allargare il proprio spettro, spingendola fuori dalle quattro mura dove la matrice originale e la sua trasposizione l’hanno circoscritta. L’essenza drammaturgica resta la stessa, così come la coralità del racconto, l’ambientazione domestica (con l’azione che si sposta in un appartamento di un quartiere della periferia capitolina tra il Mandrione e il Pigneto) e l’identikit caratteriale dei personaggi, con la scelta del nome del primogenito di una delle coppie che finisce con lo scatenare un valzer concitato di rancori, antichi dissapori e autentiche rivelazioni, che coinvolge e sconvolge gli equilibri di una famiglia e di un gruppo di amici di vecchia data.
Ci troviamo così a fare i conti con l’ennesima reunion che da sola basterebbe a riportare alla mente un film come La terrazza, ma dell’intramontabile opera di Scola, l’Archibugi vede solo un puntino in lontananza e il desiderio di mettere in scena un ritratto affettivo che si fa radiografia della condizione intellettuale e borghese di oggi e di ieri. In questo modo, un appartamento si tramuta in un ring dove a turno i contendenti se le danno di santa ragione a colpi di parole e provocazioni (da qui il paragone piuttosto facile con Carnage), sfilandosi finalmente le maschere che per anni avevano deciso di indossare, un po’ come accaduto anche ai protagonisti de Les petits mouchoirs di Guillaume Canet. E questa “mattanza dialettica” vede fronteggiarsi ideologie e modi di vivere differenti, che appartengono a personaggi “bipolari”, scissi a loro interno tra ciò erano e ciò che sono diventati, ma soprattutto tra ciò che sono realmente, ciò che vorrebbero essere e ciò che fingono di essere. Merito dello script è di aver delineato quanto basta ciascun personaggio, di non averlo mai giudicato per le posizioni prese e per le azioni compiute. Una stratificazione che da una parte regala a ciascuno di essi una gamma di sfumature, ma che dall’altra purtroppo li imprigiona in una gabbia fatta di schemi e tipologie caratteriali pre-confezionati.
Di riflesso, appare ancora più evidente ciò che a nostro avviso rappresenta il vero tallone d’Achille del film, che pensandoci bene è un limite che appartiene da qualche decennio a questa parte alla nostra cinematografia, vale a dire l’affidare i medesimi ruoli ai medesimi attori, con scelte di cast telefonate che denotano una sempre più cronica pigrizia. Di conseguenza, ritroviamo nel giro di qualche mese da I nostri ragazzi un Alessandro Gassmann (Paolo) nei panni dello snob, ricco, furbo e antipatico, scontrarsi con un Luigi Lo Cascio (Sandro) nelle vesti dell’intellettuale dalle rigide convinzioni e dalle larghe vedute; ruoli con i quali i due attori si sono misurati svariate volte, alla pari di una Micaela Ramazzotti (Simona) alle prese di nuovo con la bella e fragile borgatara. La responsabilità però ci sentiamo di distribuirla equamente tra coloro che affidano le parti e gli attori che decidono di interpretarle, consapevoli probabilmente del rischio di essere etichettati e imprigionati nell’immaginario comune. Ma il bisogno di andare sul sicuro va di pari passo con quello dettato dalle logiche di mercato che necessitano di nomi di richiamo da apporre sulla locandina di turno. Tuttavia, la qualità non manca e il risultato è godibile, anche grazie all’apporto di Rocco Papaleo nei panni di Claudio, un musicista eternamente single, amico e confidente di Betta (Valeria Golino), una prof insicura tutta protesa a far andar bene la sua vita familiare.
Il quintetto nel complesso funziona, con i personaggi che si passano di volta in volta il testimone per volontà di uno script che detta i tempi in un’equa e democratica distribuzione dei compiti e della visibilità. Il tutto in uno spazio unico, ossia l’appartamento, destrutturato e diviso in una serie di ambienti nei quali iniziano e terminano i round dialettici. Come nel Carnage di Polanski, l’impianto meta-teatrale non costituisce un limite, al contrario di quanto accaduto invece in Due partite di Enzo Monteleone (dall’omonima pièce di Cristina Comencini). Ne Il nome del figlio, la Archibugi si diverte a muovere la macchina da presa, stando però attenta a non risultare ridondante e a intralciare il lavoro degli attori. Gioca con gli spazi a disposizione e grazie ai dialoghi frenetici, efficaci e pungenti, intervallati da una parentesi canora (forse un po’ troppo lunga) sulle note di “Telefonami tra vent’anni” di Lucio Dalla, la regia tiene comunque alto il ritmo del racconto. Purtroppo come spesso accade la montagna partorisce il topolino, con una seconda parte che s’ingolfa, si slarga e va in surplace.

Francesco Del Grosso