In una terra lontana, lontana…
Il classico incipit “c’era una volta” poco si addice alle particolari favole narrate dallo scrittore britannico Roald Dahl, universalmente conosciuto per la presenza di retrogusto dark presente nelle sue storie; e infatti il romanzo ispiratore da lui firmato contiene la straziante dedica ideale alla figlioletta morta di meningite a soli sette anni d’età. Va invece da sé quanto sia calzante per l’ultima escursione cinematografica di Steven Spielberg alla ricerca del fanciullino nascosto in se stesso, tratta appunto dal romanzo omonimo di Dahl ed intitolata, per la distribuzione italiana, Il GGG – Il grande gigante gentile.
Per il grande Steven, infatti, il tempo pare non scorrere affatto, tanto questa sua ultima fatica pare cristallizzata in un immaginario decisamente atemporale, che sembrerebbe figlio degli inimitabili anni ottanta se non fosse per la perfezione di una computer graphic che solo oggi potrebbe renderne possibile la realizzazione. Le tematiche, al contrario, sono sempre le medesime esplorate in lungometraggi quali il quintessenziale E.T. – L’extra-terrestre (1982) oppure in Hook – Capitan Uncino (1991) e in generale in tutte le pellicole nelle quali Spielberg, anche nel ruolo di semplice produttore tuttavia capace di imprimere il suo inconfondibile marchio, si è trovato a raccontare l’infanzia da un punto di vista privilegiato: il fatidico incontro con il “diverso”, una nuova realtà che si spalanca davanti agli occhi, la necessità di dover affrontare le difficoltà insite nel mondo adulto come inevitabile tappa di crescita. Oltre a tutto ciò, osservato dalla prospettiva di Sophie, la bambina protagonista, con Il GGG ci troviamo di fronte ad uno dei testi spielberghiani di portata maggiormente teorica, sia pur inserita tra le righe di un discorso narrativo non sempre fluido. La sovrapposizione tra il gigante – interpretato da un Mark Rylance di commovente bravura, il quale riesce a donare una profondissima umanità al suo personaggio bypassando di slancio la performance in motion capture, con i lineamenti modificati ad hoc dagli effetti speciali – e quello dello stesso cineasta risulta oltremodo evidente, in quanto entrambi operano ad un livello metalinguistico: il primo, in ambito diegetico, catturando e manipolando i sogni in libera uscita, fatto quest’ultimo rappresentato in sequenze ispirate e di grande suggestione. Il secondo carica la messa in scena, al di là della scontata definizione di cinema come “sogno ad occhi aperti”, di ulteriori simbologie interne alla propria filmografia, come ad esempio quella giacchetta di color rosso indossata da Sophie che rimanda – oltre ad un commovente ricordo per il gigante all’interno del film – ad uno dei film più celebri del cineasta nativo di Cincinnati, cioè Schindler’s List (1993). Suggerendo così in modo palese, anche all’interno della narrazione de Il GGG, che l’orrore del reale può essere evitato se “sognato” in anticipo grazie al medium principe e lungimirante – ovviamente secondo l’idea dello stesso Spielberg – del Cinema.
Arriviamo dunque al punto centrale della questione. Se c’è un difetto, nella trasposizione de Il GGG operata dalla purtroppo recentemente scomparsa sceneggiatrice Melissa Mathison (non certo a caso autrice dello script del già menzionato E.T. – L’extra–terrestre), risiede proprio nell’intelligibilità piuttosto esplicita dell’insieme. Ne Il GGG risalta in maniera evidente il lato ludico del plot – esempio per tutto la macro-sequenza, abbastanza inutile, della colazione del gigante e di Sophie nella tenuta reale, ospiti nientemeno che di una Regina Elisabetta, non nominata ma molto somigliante – mentre quello cosiddetto “in ombra” risulta assai più di routine, con gli altri giganti carnivori che non simbolizzano null’altro che loro stessi e non riescono perciò a creare la minima inquietudine. Per tacere della descrizione, tutto sommato anonima, dell’orfanotrofio dove risiede la piccola Sophie. Un “affronto” che lo scrittore Roald Dahl non avrebbe certamente meritato, ma che rientra perfettamente nel modus operandi spielberghiano, molto propenso all’edulcorazione allorquando decide di affrontare determinate tematiche.
Accettiamo allora Il GGG – Il grande gigante gentile alla stregua di uno dei non pochi film di transizione nella carriera del regista de Lo squalo (1974), sorta di gradevole pegno che Spielberg ha pagato al proprio (assai comprensibile) bisogno di mantenere viva la fantasia infantile che è presente in lui e in tutti quelli che si identificano in una similare descrizione. Ben sapendo che, se di film “minore” si tratta, esso è sempre figlio di uno dei cineasti che ha scritto e sta continuando a scrivere la Storia della Settima Arte da oltre quarant’anni. A modo proprio.
Daniele De Angelis