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Il Club

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VOTO: 9

Il seme divino

Nel nome di quelle “misteriose” casualità di cui solamente la distribuzione italiana è capace, escono a brevissima distanza l’uno dall’altro due film che condividono la medesima tematica, ovvero Il caso Spotlight di Thomas McCarthy e Il Club di Pablo Larraín. Se il primo appartiene di diritto al filone classico del miglior cinema d’inchiesta statunitense, è il secondo a raggiungere, mediante una lucidità politica dirompente, il fulcro della delicatissima questione della pedofilia in ambito ecclesiastico, facendo deflagrare il discorso in una moltitudine di schegge estremamente affilate che vanno a conficcarsi laddove il grande cinema dovrebbe sempre puntare, cioè nel bersaglio di quel perbenismo ipocrita capace solo di tacitare le coscienze “in virtù” della più spregevole assenza di morale. Il medesimo atteggiamento che ha permesso alla Storia umana di perpetrare oscenità innominabili. Questo, al tirar delle somme, è l’argomento trattato da Il Club: non tanto un semplice indice puntato verso la Chiesa Cattolica ed i soprusi dei propri seguaci commessi sotto le false spoglie di un Dio sotto le quali è troppo facile ripararsi dai propri (enormi) peccati; quanto un saggio di una secchezza quasi antropologica sulla reale natura dell’essere umano, sempre combattuto e puntualmente sconfitto dal richiamo carnale. Ovviamente con sfumature etiche assai differenti.
In una remota isoletta cilena un gruppo di uomini condivide la monotonia della vita in un casale fuori dal centro abitato, assistiti nelle faccende domestiche da una donna che si rivelerà presto essere una suora. I componenti maschili sono sacerdoti “esiliati” in quel posto dimenticato dal mondo – a proposito di tacitare le coscienze – poiché macchiatisi di reati sessuali nei confronti di minori. L’arrivo di un nuovo “ospite”, con inaspettato seguito proveniente dal suo scabroso passato, innescherà una serie di eventi che accentuerà la discesa di tutti nell’inestricabile labirinto di ulteriori infamie. Nonostante l’arrivo di un giovane e aitante gesuita invitato dalle alte sfere a mettere ordine.
Solo il modus operandi di Pablo Larraín avrebbe potuto affrontare – con l’afflato politico necessario ma anche mantenendo la giusta distanza dall’argomento – una sfida cinematografica del genere. Il Club è un’opera del tutto incentrata sulla credibilità della parola, del racconto verbale. La scabrosità da cui deriva l’enorme questione morale posta dal film non risiede nell’oggettività delle immagini, ma nella soggettività di discorsi che possono portare, alternativamente, l’essenza di verità irriferibili o la menzogna continua dell’auto-assoluzione. Ad essere messo in pesante discussione non è la tendenza dell’essere umano a commettere peccato, incontrovertibile e per questo trattata dal cineasta cileno persino con l’amarissima ironia scaturita da una consapevolezza intangibile, ma le sovrastrutture che dovrebbero controllare l’operato degli uomini e alle quali essi dovrebbero rispondere dei proprio errori. O, meglio, orrori. Sbaglierebbe infatti in maniera grossolana chi vedesse ne Il Club solo un lungometraggio visceralmente anticlericale: l’obiettivo di Larraín è in realtà assai più alto, riguardando in generale ogni forma degenerata di potere temporale. Dalle mostruosità generate dalla dittatura di Pinochet – esaminate con spaventosa capacità riflessiva e differenti sfumature nel trittico comprendente Tony Manero (2008), Post Mortem e No – I giorni dell’arcobaleno (2012) – alle atrocità della pedofilia in ambito cattolico, c’è un filo rosso evidente a collegare il tutto. E questo trait d’union si chiama degenerazione del Potere. Lo stesso che prevede, come per insopprimibile istinto, la prevaricazione del teoricamente forte sull’apparentemente debole. Ne Il Club è il personaggio di Sandokan – interpretato con clamorosa intensità da Roberto Farías, affiancato nel cast dagli attori feticcio dell’autore Alfredo Castro e Antonia Ziegers – a simbolizzare la vittima e assieme la cattiva coscienza di coloro che avrebbero dovuto, al contrario, “purificare” gli animi. L’accanimento nei suoi confronti, da parte del club del titolo allo scopo di cancellare la prova evidente della loro, generalizzata, cattiva condotta, rappresenta semplicemente la capacità connaturata nell’essere umano di credere che, una volta scomparsa la prova del peccato, anche il peccatore possa tacitare di conseguenza la propria inquietudine. Aggiungendo nefandezza a nefandezza, in una reazione a catena senza fine. Difficile, peraltro, non vedere, nella figura del padre gesuita incaricato dalla Chiesa di risolvere in qualche modo la situazione, un riferimento nitido alla impossibilità della missione di Papa Francesco, obbligato a caricarsi sulle spalle tutto il peso di una pachidermica istituzione ormai divenuta da tempo (da sempre?) un’organizzazione che antepone il proprio benessere a quello comune.
Mantenendo il suo lungometraggio sui binari di un accentuato verismo sia di forma che di contenuto, realizzato anche attraverso la messa in scena di personaggi estremamente ben caratterizzati da uno schiacciante senso di solitudine sia visiva che interiore, Larraín ci obbliga a contemplare, ponendoci davanti ad un metaforico specchio, la parte peggiore del consorzio umano. E lo fa attraverso un’opera senza dubbio sgradevole, in quanto pervasa da lucidissimo pessimismo dalla prima all’ultima sequenza; e tuttavia abilissima nell’evidenziare una malattia endemica del genere umano per la quale è impossibile trovare una cura. Come purtroppo sono lì a testimoniare, per coloro che hanno ancora il coraggio di vedere, migliaia di anni di Storia fino ad oggi.

Daniele De Angelis

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