Segnali di debolezza
Erano quattro i film italiani in concorso alla 72esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, e l’intenzione di questo articolo è quella di cavarne un’idea generale sull’attuale condizione del nostro cinema: le pellicole veneziane sono espressione della volontà di rinnovarsi e di operare scelte coraggiose (pericolosamente assenti nel cinema italiano degli ultimi anni), oppure della tendenza a riprendere stilemi e linguaggi già visti? Sono incancrenite nel loro voler fare un cinema d’autore destinato ad esser vuoto ed estetizzante o sono interessate ad aggiornarsi nel contenuto non meno che nella forma?
Il film che a prima vista sembrerebbe “osare” di più a livello di trama e di costruzione narrativa è Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio. Caratterizzata da elementi fantastici e grotteschi non meno che da scambi satirici, la trama dell’ultimo film di Bellocchio (ambientato a Bobbio) non trova uno snodo definitivo per i due filoni temporali sui quali si imposta, finendo per lasciare un’impressione di confusione e inconcludenza. I personaggi (tra i quali in prima fila troviamo ancora una volta un crucciato Pier Giorgio Bellocchio, che non sembra voler rinunciare ad una recitazione metallica e fastidiosamente impostata) passano da un secolo all’altro senza soluzione di continuità, dando luogo a scenette che hanno del già visto anche a causa di una sceneggiatura esile e scolastica. Risulta particolarmente sacrificato il vampiro impersonato da Herlitzka, che abdica dai tratti mostruosi altrimenti tipici della figura vampiresca per diventare un uomo di mondo, che giudica e spara sentenze sul resto dei concittadini tra le pareti di uno studio dentistico, in una delle scene più irritanti del film. Anche il (forse finto) matto interpretato da un Filippo Timi più esaltato e sopra le righe del solito ritorna solo due volte, entrambe presenti nel secondo filone temporale del film (quello dell’oggi), senza che si riesca ad attribuirgli un ruolo ed un senso specifici.
Ne esce sicuramente meglio Luca Guadagnino col suo A Bigger Splash, ispirato al lungometraggio La piscina diretto nel 1969 da Jacques Deray e all’omonimo dipinto di David Hockney, fin troppo fischiato durante la proiezione stampa di Venezia (soprattutto se si considerano gli applausi scroscianti che hanno serguito quella di Sangue del mio sangue). Dopo Io sono l’amore (2010), questa volta Guadagnino punta su un cast ancor più internazionale sempre capitanato da Tilda Swinton, meravigliosa nel ruolo di Marianne, ex cantante eccentrica senza voce a seguito di un’operazione, e da un iperattivo Ralph Fiennes nel ruolo di Harry, ex di Marianne che con la presunta figlia Penelope (Dakota Johnson) fa il suo arrivo a Pantelleria nella dimora di lei e del suo attuale compagno Paul (Matthias Schoenaerts) causando scompiglio e dissotterrando vecchi rancori e conti in sospeso.
E’ senz’altro ascrivibile a Guadagnino una certa riconoscibilità nello stile, grazie al suo modo di dirigere gli attori, ad ingegnosi movimenti di macchina e a una scelta delle musiche che convince quasi sempre. Il film si concentra sui rapporti che intrecciano i quattro personaggi, anticipabili nella loro prevedibilità e dominati dalla personalità di Harry, che in certi punti è decisamente sovraccaricata (è indicativa in tal senso l’ormai celebre scena in cui balla sulle note di Emotional Rescue degli Stones).
Ma, proprio come era avvenuto con Io sono l’amore, il difetto più vistoso di A Bigger Splash è di non trovare uno sbocco finale e decisivo alle tematiche sollevate (sul finale verrà coraggiosamente introdotto l’argomento immigrazione, che però, malgrado la sua rilevanza, non porterà alcuna svolta nella vicenda), così da lasciare la storia che racconta priva di quel collante che solo uno sguardo d’insieme innervato di senso avrebbe potuto darle. Particolarmente immotivata e fastidiosa l’entrata in scena di Guzzanti a trenta minuti dalla fine, che provoca lo scivolamento del film in un macchiettismo stucchevole e stereotipato.
La delusione per noi più grande di quest’edizione della Mostra del Cinema di Venezia è rappresentata dal film di Piero Messina, che, in quanto opera prima, era atteso con curiosità e con la speranza di veder nascere un autore dal tocco fresco e non convenzionale. L’attesa non dà al nostro cinema alcuna spinta innovatrice, condividendo anzi l’irretimento in un formalismo autoreferenziale e la devozione ad un cinema d’autore privo di mordente. Una trama inconsistente che pecca in quanto a credibilità non è salvabile né da una grande attrice internazionale (Juliette Binoche) né dalle ricercatezze stilistiche, soprattutto se artificiose come quelle architettate da Messina, il quale, a conti fatti, sembra essere stato investito dall’ombra imponente del maestro Paolo Sorrentino (del quale, ricordiamo, è stato aiuto regista per molti anni) a tal punto da ereditarne sì lo stile, ma senza riuscire a filtrarlo col proprio punto di vista e anzi rivisitandolo con un esito ridicolo che Sorrentino era comunque riuscito saltuariamente ad evitare.
Per amor vostro di Giuseppe Gaudino, regista di molti documentari e di qualche cortometraggio, con la Coppa Volpi assegnata alla sua protagonista Valeria Golino è stato l’unico italiano in concorso a portarsi a casa un premio del palmares, ed è stato anche il più acclamato tra i quattro. Il film di Gaudino ha un cuore pulsante visceralmente napoletano, per dialetto, ambientazione e trama: la storia che racconta è quella di Anna (Valeria Golino), madre di famiglia che ha sacrificato ai tre figli le sue ambizioni giovanili, e che ha nel suo lavoro di suggeritrice in uno studio televisivo la sua unica soddisfazione. Con gli anni Anna è arrivata a convincersi di essere “una cosa da niente”, come recita il trascinante brano folk inserito nel prologo, nell’epilogo e anche come intramezzo durante il film, ed appare ormai rassegnata nella sua cecità, facendo finta di non vedere la pratica usuraia portata avanti dal marito (Massimiliano Gallo).
Se le vicende raccontate dal film di Gaudino non spiccano certo per originalità ed il ritratto di Napoli che viene offerto ha del già visto, Per amor vostro ha un’anima molto personale e un fascino tutto suo, che stemperano l’elementarità dei contenuti più immediati rendendoli più astratti e universali: la presentazione dei personaggi in un napoletano ritmato, i colori aggiunti post produzione che si irraggiano intorno alla figura di Anna facendone un’icona votiva danno al film di Gaudino un respiro barocco e partenopeo che va ben oltre la biografia della singola protagonista. Le tinte grigie e fredde della pellicola riflettono la sua esistenza ormai sbiadita, le cui possibilità di rivalsa appaiono posticce come gli effetti speciali volutamente kitsch che ritornano più volte nel film. Ma se nell’opera di Gaudino sono ammirevoli simili tracce di originalità ed è riscontrabile un contributo veramente personale (cosa non comune per il cinema italiano degli ultimi anni), Per amor vostro eccede nel riproporre a più riprese il suo apparato eccentrico, e alla fine l’impressione che se ne ricava è quella di un film che dura oltre il tempo massimo necessario alla trattazione, che comunque si congeda con un finale poetico e avvincente.
Da tale disamina si possono trarre varie conclusioni: il nostro cinema non sembra per ora capace di un vero rinnovamento, soprattutto per quanto riguarda i generi affrontati e la fetta di pubblico alla quale intende rivolgersi. Spesso troppo devoto agli stilemi del cinema d’autore (Messina), quando cerca di distaccarsene risulta come spaesato e incapace di raccordare le fila che lui stesso si era proposto di seguire (Bellocchio), oppure si perde nella ricerca di un internazionalismo che, se ha il vantaggio di scongiurare la recitazione accademica ed impostata di molti attori nostrani, non può comunque illuminare di senso un materiale già in partenza incerto. Sperare in una rinascita del cinema italiano non significa né augurarsi la riproposizione del già visto, né incoraggiare la recisione delle sue radici, è piuttosto il sintomo di una consapevolezza, la consapevolezza che, se davvero il nostro vuole essere cinema d’esportazione, deve abbandonare la sua attuale scarnevolezza, tutta affacciata verso le problematiche che assillano il nostro paese, e aprirsi a quelle possibilità che tanto cinema internazionale ha già avuto modo di saggiare.
Ginevra Ghini