Bastardi con la gloria
Ci sono un nero, un messicano, un pellerossa, un cinese (in realtà l’attore sarebbe sudcoreano ma pazienza: gli occhi a mandorla sono presenti all’appello), un timorato di Dio, un balordo da saloon abile con la pistola e un ex ufficiale dell’esercito nordista. E non si tratta dell’incipit di una barzelletta. Ci troviamo negli Stati Uniti della seconda metà dell’Ottocento e se il lettore un po’ attempato ha la bontà di contare il numero dei personaggi sin qui elencati, un certo brivido di timore dovrebbe salirgli su per la schiena. Cosa nota, dopo la proiezione come film di chiusura alla Mostra del Cinema di Venezia edizione settantatre: Hollywood ha rifatto I magnifici sette di John Sturges (1960), a propria volta abile rivisitazione in chiave western del capolavoro I sette samurai di Akira Kurosawa (1954), affidandone la regia all’esperto di action-noir metropolitani Antoine Fuqua. E pure questa potrebbe sembrare una barzelletta. Ma non lo è affatto.
Nelle premesse l’ottimismo scaturiva dalla semplice ragione che pure il film di Sturges, un classico realizzato con tutti i crismi dell’altissimo livello di artigianato, era in fondo un divertissement, trapiantato con estrema naturalezza nell’ambito del genere più “americano” in circolazione. Buoni contro cattivi (messicani) con soverchia attenzione ai caratteri e poca al politically correct. Bei tempi. Questa nuova versione de I magnifici 7 – nella versione italiana il numero sostituisce la parola; un furbo richiamo all’ultimo Tarantino? Il manifesto conferma tale teoria – nasce già sotto l’insegna del melting pot dalla parte positiva, mente il cattivo è talmente bidimensionale e da operetta che si presenta subito nel prologo come un capitalista ad oltranza (che Donald Trump agiti da un po’ di tempo le notti dei produttori hollywoodiani?) nonché vagamente psicotico, capace di far bruciare la chiesa del villaggio tanto per far capire meglio anche ai duri di comprendonio chi comanda ora al posto di Dio. Benissimo. Si passa dunque all’introduzione dei nostri eroi. E per un’oretta abbondante non accade praticamente nulla. Dimenticate, o voi che entrate nel duro universo del remake, le pennellate con cui venivano descritti i protagonisti primigeni ed il loro rapporto con la popolazione da proteggere, certo dietro compenso ma senza che la vile pecunia contasse poi più di tanto. Nella sceneggiatura della versione 2.1 – dove fa specie leggere il nome di Nic Pizzolatto, creatore della vibrante serie televisiva True Detective, in entrambe le stagioni sin qui realizzate – si passa drammaticamente oltre, in previsione del grande scontro finale; facendo però venire in tal modo a mancare a mancare quel processo empatico che si creava nel primo film. Preludio ad un’epica western raggiunta in apparenza senza alcun sforzo. Ne I magnifici 7 griffato Fuqua, al contrario, riveste un’importanza assai minore chi sopravvivrà e chi ci lascerà le penne, tra i cosiddetti buoni: la grande sparatoria d’epilogo si svolge ad uno spettacolare ritmo visivo da videogioco in cui la frenesia sovrasta ogni cosa ed anche la morte assume le sembianze di uno scherzo, magari in qualche circostanza pure di cattivo gusto.
Inutile allora sottolineare come Fuqua inserisca nel suo lunghissimo film – ben oltre le due ore! – citazioni a iosa, dalle inquadrature rivelatrici di un mondo alla John Ford, sino alla sferzante ironia di Sergio Leone passando per un cinismo di fondo alla Don Siegel. Mentre, come ovvio, l’ombra di Quentin Tarantino aleggia per tutto il film sino a materializzarsi concretamente sui titoli di coda. Qualcuno magari scriverà che la parte conclusiva vorrebbe rievocare Sam Peckinpah e la sua visione pessimista di un macrocosmo senza vinti né vincitori, ma sarebbe più deragliare in malo modo che andare fuori strada. Questo, a pensarci bene, è un fulgido esempio di cinema per le nuove generazioni, privo di anima (il cinema) per coloro che volutamente ignorano un passato invece da rivedere e studiare (le generazioni). L’insostenibile pathos del sommo Kurosawa viene bellamente dimenticato dopo una manciata di fotogrammi, la cinefilia empatica di Sturges resta solo un lontano ricordo, di quelli che ancora preservano quelli che hanno vissuto l’irresistibile epoca della metamorfosi di un western che da cinema splendidamente classico si faceva spettacolo popolare di grande sostanza. Nostalgia canaglia.
Daniele De Angelis