You May Say I’m a Dreamer
Come operatore e direttore della fotografia per Wong Kar-wai ci aveva conquistato con un’estetica unica e una delicatezza di tocco immediatamente riconoscibili. Ora l’australiano naturalizzato cinese Christopher Doyle, alla sua terza regia, torna sul grande schermo con un documentario insolito e sentito che spiazza e sorprende senza, per questo, perdere la peculiarità di quello sguardo inimitabile con cui, negli anni, ha imparato a farsi conoscere e amare.
Hong Kong Trilogy, prima di essere un documentario estremamente sui generis e poco convenzionale, è, soprattutto, un’appassionata, divertita e poetica dichiarazione d’amore per Hong Kong, l’omaggio personalissimo e ispirato di un artista a quella città che l’ha adottato e che tanto ha dato alla sua arte.
Contaminando un viaggio “antropologico” tra gli ordinariamente bizzarri abitanti della città asiatica con suggestioni finzionali e narrative, Doyle fotografa una realtà sociale filtrata da un sentire affettuoso e riconoscente in grado di restituire tutta l’umanità e la bellezza di un popolo.
Per farlo divide il suo film in tre parti (Preschooled, Preoccupied, Preposterous) analizzando, pedinando, ritraendo in ognuna di esse una specifica categoria sociale, anagrafica, generazionale, scandagliando un mosaico umano unico, in una teoria di personaggi tanto assurdi quanto affettuosamente autentici. Ecco allora alle storie infantili di bambini alle prese con i primi anni di scuola, tra solitudine, abbandono e confusione, affiancarsi quelle di giovani idealisti poco più che maggiorenni impegnati nella lotta per garantirsi un futuro (grande spazio viene riservato alla così detta Rivoluzione degli ombrelli del 2014), fino ad arrivare a raccontare chi le preoccupazioni se le è lasciate alle spalle e ora si gode la meritata pensione tra bizzarri speed dating e giochi sulla spiaggia.
Con uno stile inconfondibile e una delicatezza di sguardo capace di risolvere ogni contrasto netto, ogni contraddizione troppo urlata attraverso il filtro soffuso di un umorismo partecipe e conciliante, Doyle compone, in poco meno di un’ora e mezza, un puzzle denso e caotico di vite che si fa affresco stesso di una città unica, in grado di trovare, come poche altre, proprio attraverso il cinema la sua più realizzata dimensione.
Ne esce un prodotto anomalo e raffinato dove la moltitudine di punti di vista offerti riesce sempre, paradossalmente, a evitare qualsiasi conflittualità e a convergere nella visione poetica del regista, nel suo più profondo sentire e, insieme, in quello di chi lo circonda, fino a perdersi tra le note di “Imagine” di John Lennon, in un coinvolgimento emotivo tanto forte quanto più distante appare, a noi, quel mondo di autentici, goffi sognatori.
Mattia Caruso