L’orrore scolpito nella pietra
La Settima Arte ci può condurre in quei luoghi dove forse non andremo mai e sottolineiamo forse perché il destino ha sempre qualche sorpresa in serbo per noi. Dunque sarebbe meglio parlare di mete che non figurano nella lista dei posti da andare a visitare almeno una volta nella vita. Una di queste è Hexham, una cittadina di poco più di 13.000 anime a ovest di Newcastle, situata sulle rive del fiume Tyne nel Northumberland, per la precisione nella parte settentrionale dell’Inghilterra. Se la località in questione era già fuori dai radar dei desiderata, lo sarà ancora meno per chi come noi ha avuto la possibilità di vedere nel corso della 60esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, laddove è stato presentato in concorso, il mediometraggio Hexham Heads.
Nell’opera scritta e diretta a quattro mani da Chloë Delanghe e Mattijs Driesen, la cittadina britannica fa da cornice a un horror sperimentale ispirato a una serie di eventi paranormali che hanno avuto luogo lì nei primi anni Settanta. Protagonisti, loro malgrado, due fratelli della zona che dopo aver rinvenuto e portato un paio di teste di pietra nella loro casa di famiglia furono terrorizzati da visioni spettrali. Per la cronaca si trattava di una coppia di artefatti alti circa 6 cm, le cui origini esatte erano e sono ancora oggi sconosciute e oggetto di controversia. Quei misteriosi reperti e quanto accaduto fuori e soprattutto dentro le quattro mura della villetta abitata degli sfortunati possessori delle statuette hanno fornito agli autori materiale narrativo a sufficienza per dare forma e sostanza a una ghost-story di grande impatto.
Il riferimento al quale gli autori hanno attinto è senza ombra di dubbio la nutrita produzione J-Horror dei primi anni Duemila, quelli che fanno capo a Takashi Shimizu piuttosto che a Hideo Nakata, con qualche rimando al revival folk-horror in chiave contemporanea come avvenuto recentemente con Enys Men di Mark Jenkin. Partendo da stilemi ed elementi caratteristici del filone di riferimento, a cominciare dalla costruzione della tensione attraverso le atmosfere e il ricorso al jump-scare, i registi offrono però una loro personale versione e visione rispetto ai sudetti modelli. Delanghe e Driesen, artista e fotografa di livello la prima e cineasta di comprovata esperienza il secondo, hanno unito le rispettive conoscente, competenze, talenti e la comune passione per il genere horror per portare sullo schermo un viaggio psicogeografico che magneticamente tiene a sé il fruitore per i trenta minuti e poco più a disposizione. In questo arco di tempo delle visioni e presenze ectoplasmatiche tormentano i malcapitati di turno, tenendo sia loro che il fruitore sul filo del rasoio e sull’orlo del baratro grazie a una capacità di accumulare attese snervanti, al limite dell’ansiogeno, che tengono sempre alta la tensione emotiva.
Il tutto si compone nel quadro con e attraverso un riuscito mix di VHS e pellicola 16mm che fa del film anche una riflessione materica e al contempo teorica sull’intrinseco mistero della riproduzione fotografica. Il rosso della luce di sicurezza della camera oscura poi richiama tanto il processo di stampa quanto in maniera evocativa la tinta tipicamente orrorifica. Un “gioco”, questo, di corrispondenze e associazioni efficace e assolutamente funzionale alla natura del progetto. Al resto ci pensano il sound design e le musiche di Sam Comerford, che aumentano in maniera esponenziale la temperatura febbrile dell’esperienza audiovisiva.
Francesco Del Grosso