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Hell in Paradise

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VOTO: 6,5

In trappola

Dopo l’uscita nelle sale francesi lo scorso 26 novembre, per Hell in Paradise si è presentata l’occasione di una sortita nel circuito festivaliero oltre confine, per l’esattezza sugli schermi italiani del Noir in Festival, laddove l’ultima fatica dietro la macchina da presa di Leïla Sy è stata selezionata nel concorso della 35esima edizione. La proiezione della suddetta pellicola nel corso della kermesse milanese ci ha permesso di entrare in contatto con l’eclettismo di un’autrice che l’ha portata a spaziare tra le varie arti (tra cui la fotografia e la musica) e a realizzare prodotti audiovisivi che per formato, tono e tipologia (vedi i numerosi videoclip per artisti della scena hip hop e rap francese) hanno scandagliato il ventaglio di generi. In tal senso, Hell in Paradise si differenzia molto dai lavori precedenti della cineasta parigina, salita alla ribalta grazie al successo su Netflix del suo primo lungometraggio, Banlieusards.
Prodotto tra gli altri dalla Europacorp di Luc Besson, il film in questione si avventura infatti nel territorio del thriller di sopravvivenza e dell’action partendo da una sceneggiatura scritta da Karine Silla, che a sua volta si è ispirata a una storia realmente accaduta che vede Nina, una giovane francese, lasciare la natia Marsiglia per accettare un impiego come receptionist in un lussuoso resort situato su un’isola bagnata dall’Oceano Indiano, nella speranza di una vita migliore. Ma quando una tragedia colpisce l’hotel, Nina viene precipitata in una spirale implacabile di menzogne e manipolazioni. Ingiustamente accusata e condannata all’ergastolo, non avrà altra scelta che destreggiarsi tra insidie e fuggire da questo paradiso trasformatosi in inferno. Da qui il titolo che rende alla perfezione l’odissea umana, professionale e giudiziaria che la protagonista, interpretata con grande presenza scenica e intensità da Nora Arnezeder, è costretta suo malgrado ad affrontare in una cornice mozzafiato di acque cristalline, tramonti spettacolari e sabbia bianchissima che fa da contrappunto a un incubo ad occhi aperti. La fotografia giocata sugli opposti di Benjamin Ramalho da questo punto di vista rende alla perfezione tale condizione, contribuendo alla messa in quadro della contrapposizione tra l’ambientazione paradisiaca e la dimensione infernale nella quale Nina viene “intrappolata”.
Lo script di Hell in Paradise disegna benissimo il percorso di questa discesa agli “inferi” di una donna scaraventata in una in fitta rete di bugie e in società patriarcale, circondata da uomini che la vedono come una preda facile, per di più in una cultura che non conosce. Per tracciare questa traiettoria il racconto di resilienza passa per tre step che riportano la mente a The Net: parte come storia di auto-determinazione di una donna che vuole prendere il controllo del proprio destino, trasformandosi poi in dramma sociale per poi cambiare pelle e diventare un survivor-thriller ricco di azione e tensione. Quest’ultima e la sua gestione sono senza alcun dubbio il punto di forza dell’opera, con una crescita esponenziale dettata e sollecitata dal ritmo sempre più frenetico del montaggio e della regia della Sy. Lo spettatore viene travolto da uno “tsunami” di emozioni cangianti che raggiunge picchi febbrili in più di una scena, tra le quale merita una segnalazione quella ansiogena e angosciante del primo interrogatorio con la polizia locale.
Purtroppo il tutto viene compromesso e depotenzializzato da un finale troppo sbrigativo che sembra tagliato con l’accetta pur di chiudere le ostilità, sul quale pesa anche una certa mancanza di credibilità rispetto agli eventi. Resta dunque l’amaro in bocca. Tuttavia anche se l’epilogo fa i suoi danni, non cancella quello che di buono la pellicola ha saputo costruire e mostrare prima che a una ventina minuti circa dai titoli di coda si decidesse di comune accordo di operare scelte narrative e di montaggio di scarsa lucidità.

Francesco Del Grosso

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