Note dal Nordeuropa
Ingiustamente mortificato da una distribuzione nostrana poco coraggiosa, il cinema nordeuropeo ci ha spesso riservato interessanti sorprese. Se, tuttavia, di quando in quando è possibile – perlopiù all’interno di circuiti festivalieri – assistere a veri e propri gioiellini destinati a restare impressi nella mente per molto tempo, dall’altro canto capita spesso che nei tanto freddi quanto affascinanti paesi scandinavi vengano fatti non pochi pasticci. Eppure, una cosa su tutte accomuna il cinema che viene prodotto in queste terre: la grande capacità di raccontare il quotidiano mediante idee spesso ai limiti del surreale, con focus sull’essere umano e sulla sua vera essenza, il più delle volte non priva di macchia. Tale, impegnativo proposito, però, proprio per la sua difficoltà nell’essere rappresentato come si deve, è particolarmente a rischio di scivoloni. Malgrado le ottime intenzioni iniziali. Questo, ad esempio, è anche il caso di Heavy Trip, bizzarro giocattolone in salsa “heavy metal” che viene direttamente dalla Finlandia (in coproduzione con la Norvegia), diretto da Juusio Laatio e Jukka Vidgren e presentato in anteprima alla trentaseiesima edizione del Torino Film Festival, all’interno della sezione After Hours.
Tutto prende il via in un piccolo villaggio del nord della Finlandia, dove il giovane e timido Turo passa le sua giornate a lavorare come inserviente presso una clinica psichiatrica e a esercitarsi in un garage con la sua band heavy metal, gli “Impaled Rektum”. Considerato “diverso” dalla comunità in cui vive e indicato – insieme agli altri tre componenti della band – come un potenziale criminale, il ragazzo vede cambiare improvvisamente la sua vita nel momento in cui intravede la possibilità i partecipare a un importante festival in Norvegia.
Fin qui, la storia sembrerebbe quanto di più classico e lineare ci sia. Eppure, questa piccola commedia nera dei due giovani registi finlandesi è quanto di più bizzarro e sgangherato si possa immaginare, tra carcasse di renne che restano imprigionate in un tritacarne, suggerendo al gruppo, con il loro rumore, l’idea per un nuovo brano, bare che viaggiano su una sorta di fuoristrada, cosplayer rivisitanti la saga de Il Signore degli Anelli e – non per ultimo – un conflitto tra Finlandia e Norvegia, in cui si discute circa l’apertura o la chiusura dei confini a chi viene dall’estero. Tanti, tantissimi elementi. Troppi, per soli novantadue minuti di film? Probabilmente sì. Il problema principale del presente lungometraggio, infatti, è – al di là di una regia e di una fotografia posticce, che tanto stanno a ricordare un prodotto televisivo – proprio una sceneggiatura sbilenca, che, man mano che ci si avvicina al finale, si fa sempre più sfilacciata, con il rischio di risultare spesso inconcludente e fortemente prevedibile.
Eppure, in fin dei conti, data sua la freschezza e la disarmante ingenuità, non si può non voler bene a un lavoro come Heavy Trip, a cui si deve riconoscere anche un certo coraggio nell’aver tirato in ballo così tante cose messe insieme, al fine di comunicare l’importanza di essere sé stessi sempre e in ogni situazione e in cui, all’interno di una comicità volutamente demenziale e a tratti forzata, non mancano momenti – vedi, ad esempio, la stessa trovata della renna incastrata nel tritacarne o la scena in cui i quattro musicisti decidono di scattarsi una foto promozionale con l’autovelox del paese – in cui ci viene da ridere di cuore.
Marina Pavido