The Last Hobo
Harry Dean Stanton è morto il 15 settembre 2017, all’età di 91 anni. Attore di culto, di quei corpi-volto che hanno solcato e impressionato il (miglior) cinema americano. Interprete riconoscibilissimo, per via delle sue fattezze (magrolino e dalla faccia trasandata), ma allo stesso tempo ultra-mimetico nella miriade di personaggi incarnati nei vari film. Il suo curriculum rimarca che ha preso parte, nella sua lunga carriera, a oltre 200 opere, tra lungometraggi, cortometraggi e telefilm; senza mettere in questo sterminato conteggio le sporadiche interpretazioni teatrali. Una durevole gavetta, fatta di comparsate, camei, e caratterizzazione, incensata solo tardivamente dal ruolo di protagonista in Paris, Texas di Wim Wenders. L’interpretazione dello sbandato Travis Henderson lo consacrò a vero attore a tutto tondo e spessore, e confermò che non era semplicemente un caratterista di seconda fascia. Riguardando o ripensando ai ruoli interpretati, con spezzoni mostrati nel documentario o semplicemente rievocati a voce, Harry Dean Stanton non era un semplice riempitivo del fotogramma, ma una figura (umana) che dava spessore alla scena e charme al personaggio. Ma Harry Dean Stanton: Partly Fiction, realizzato nel 2012 da Sophie Huber, non vuole essere propriamente un riepilogo commemorativo di quello che ha fatto, ma tentare di conoscere nel profondo quell’uomo tanto famoso sullo schermo, ma di cui si sa poco. Vuole essere un sulfureo omaggio video a questa figura mitica che, seppure fuori dalla finzione cinematografica, in veste di se stesso conservi la stessa ironia sardonica di molti dei suoi personaggi. Con questo modo di porsi e di raccontarsi di fronte alla videocamera, sempre con una sigaretta tra le dita, Harry Dean Stanton sembra un Sergio Citti americano. Due figure cinematografiche, e probabilmente anche culturali, geograficamente agli antipodi, ma che hanno lo stesso modo di porsi con(tro) la vita. Nell’ascoltare Stanton, torna alla mente lo schizzo descrittivo di Pier Paolo Pasolini fatta come “Breve introduzione per il tomo Ostia” (Garzanti, 1970), che conteneva la sceneggiatura dell’omonimo film del regista romano. “La voce di Sergio Citti è sempre bassa e rauca, e le battute sono sempre dette come tra parentesi, o in una clausola appena soffiata. […] Le massime dei filosofi cinici – poveri e senza identità personale e anagrafica come i cani – sono in Sergio «battute»: non gli caverete mai dalla bocca un ragionamento filato e cartesiano. […]”. A questo ritratto vergato da Pasolini, basta sostituire il nome di Sergio Citti con quello di Harry Dean Stanton, e il tratto descrittivo è uguale.
Immortalato in un bianco e nero tanto arty quanto pregno di veri umori d’altri tempi, Harry Dean Stanton appare come un vero cimelio del Novecento. I suoi ricordi, personali e artistici, lo presentano come un hobo americano d’antan, tanto nel lungo vagabondare nei diversi territori cinematografici, quanto nel perenne pellegrinaggio affettivo della sua vita privata. Stanton è uno degli ultimi romantici disordinati del ‘900, che si nasconde, però, dietro quel corrivo umorismo. Gli piace conversare incastonando discorsi filosofici di uomo che ha vissuto (e sofferto); andare nei bar comuni stando tra la gente comune; e cantare vecchie e polverose canzoni Country, che confermano le sue origini del profondo Kentucky. Però alle domande sul suo lontano passato, sulla sua famiglia, l’attore risponde velocemente, con poche battute, eludendo rapidamente la domanda, prima che una lacrima possa arare il suo volto vissuto. E in questo piccolo profilo filmico, appaiono anche alcuni dei suoi molti compagni di viaggio, che gli rendono omaggio, oppure duettano (o tentano di farlo) con lui. Ad esempio, Wim Wenders e Sam Shepard rievocano l’esperienza di Paris, Texas, e di come quella scelta fu del tutto casuale. Ma i migliori momenti sono quelli in cui la scena è condivisa con un sodale. C’è il simpatico duetto di Stanton con David Lynch, che ci mostra il regista di Missoula come uno scanzonato uomo canuto rispetto alla contorta figura registica. I due non ricordano nemmeno quanti film hanno fatto insieme (per fortuna Lynch ha compilato una lista delle pellicole). Oppure Stanton con Kris Kristofferson, altra figura mitica della cultura americana. Il duo sembra come quella di una coppia di vecchi cowboys ormai ai margini, che ricordano il dorato e giovane tempo che fu; e di quante “marachelle” hanno combinato assieme.
Il documentario della Huber, nella sua genuina passione, seppure macchiata con qualche eccesso stiloso e con una poca e coraggiosa scelta d’archivio (anche dettata dal lunghissimo curriculum), ha comunque il merito di far parlare Stanton senza filtri. Vedere Harry Dean Stanton: Partly Fiction a distanza di 5 anni, conferma la grandezza e la semplicità dell’attore, e con la sua scomparsa sappiamo che certi personaggi non avranno più quella forza che lui sapeva infondere. I futuri fotogrammi avranno immancabilmente un “vuoto”.
Roberto Baldassarre