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Gulistan, terre de roses

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VOTO: 7

Niente finisce con la morte

Nel 2006, il regista palermitano Stefano Savona intraprese un viaggio di un mese insieme a un’unità di combattenti del PKK per raggiunge il nord dell’Iraq poco dopo la caduta del regime di Saddam Hussein. Durante quel viaggio, fatto di lunghe marce tra impressionanti panorami montagnosi, il gruppo trascorse qualche giorno in un campo femminile nel quale si preparano le combattenti alla lotta per la libertà e si educano gli uomini al rispetto del ruolo femminile nella società. Da quell’esperienza nacque il documentario Primavera in Kurdistan, vincitore di numerosi riconoscimenti nel circuito festivaliero internazionale.
Dieci anni dopo, con uno scenario storico-politico mutato e un diverso nemico da combattere, la filmmaker di origini curde e canadese di adozione Zaynê Akyol torna a parlare di quelle donne guerriere, ritraendo ancora più da vicino le loro vite, strette nella resistenza tra Turchia e Isis. Il risultato di quell’incontro è Gulîstan, terre de roses, presentato in anteprima italiana nel concorso della 21esima edizione del Milano Film Festival. La seconda prova dietro la macchina da presa della Akyol offre alla platea di turno uno sguardo sulla guerra lontano da quello normalmente diffuso dai media (in particolare dalla televisione), al quale lo spettatore tipo sembra ormai assuefatto. Quello proposto in questo documentario, dal primo all’ultimo fotogramma utile in bilico tra poesia e dramma, è uno sguardo su un conflitto totalmente al femminile, che ha nel Dna ben altri codici e un fascino arcaico, capace però di restituire in tutto e per tutto la nostra attualità. Tale approccio alla materia, dotato anche di un occhio cinematografico notevole che non guasta, è il cuore pulsante dell’opera; ciò che le consente di distinguersi dalla massa multiforme e vasta di operazioni a sfondo bellico che invadono il piccolo e il grande schermo.
La Akyol penetra in punta di piedi nel tessuto militare e soprattutto umano di un’unità formata esclusivamente da guerriere del PKK ed è straordinariamente brava a entrare in sintonia con ciascuna delle componenti. La pura osservazione dei fatti si contrappone all’interazione, allo scambio e alla condivisione con le protagoniste, resi possibili da una serie di interviste nelle quali le protagoniste raccontano con partecipazione e naturalezza le motivazioni che le hanno spinte ad abbracciare la lotta armata, lasciandosi alle spalle le famiglie e le violenze subite in passato. Con loro la lotta acquista un valore non solo politico e storico, ma anche filosofico e antropologico. I due modi di procedere, però, non entrano mai in conflitto, al contrario si mescolano in maniera armoniosa anche e soprattutto grazie al prezioso contributo di un montaggio che trova sempre la giusta dose e l’esatta collocazione ai frammenti. Ciò determina un interessante alternarsi tra l’oggettività delle azioni e la soggettività delle parole, in un gioco continuo di In and Out che separa le dinamiche di gruppo (addestramento, pulizia delle armi, cene e pranzi, preparazione delle trincee, ecc…) da quelle intime e private delle singole guerriere. Componenti, queste, che trovano l’elemento di intersezione nella potentissima sequenza dello scontro a fuoco in città, vissuta interamente e tragicamente a distanza attraverso l’uso di binocoli e radiotrasmittenti. Questo permette alla regista di avere sia una fotografia di gruppo che una serie di ritratti. Quest’ultimi sono, a nostro avviso, i punti più alti emozionalmente parlando raggiunti dal film nell’arco dei novanta minuti circa di timeline, alla quale forse andrebbero tolti una ventina di minuti circa a una parte centrale che a conti fatti si rivela piuttosto ridondante. Un lavoro di asciugatura e sottrazione in tal senso gioverebbe e non poco al racconto.

Francesco Del Grosso

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