Oltre Rangoon
Se Francis Ford Coppola ha saputo adattare “Cuore di tenebra” di Conrad per un film sulla guerra in Vietnam, Apocalypse Now, e ora ha stupito il pubblico della Croisette trasponendo la congiura di Catilina in una moderna metropoli, Megalopolis, un analogo estro traspositivo era stato mostrato dal regista portoghese Miguel Gomes nel trasportare la raccolta di racconti orientali “Le mille e una notte” nel contesto della crisi economica in Portogallo di dieci anni fa. Ora Gomes ripete un’operazione molto azzardata su un’opera letteraria, presentando in concorso a Cannes 2024 Grand Tour, che ha ricevuto il Prix de la mise en scène, partendo da un testo dello scrittore William Somerset Maugham, “The Gentleman in the Parlour: A Record of a Journey From Rangoon to Haiphong” (1930). Si tratta di un tipico romanzo di viaggio dell’epoca tra le due guerre mondiali, intriso di fascinazione per i luoghi esotici, tipico di una cultura coloniale. Nelle mani di Gomes il plot assume un significato diverso. Nel raccontare della peregrinazione di Edward, un funzionario dell’Impero Britannico, per il Sudest asiatico, fuggendo a un matrimonio e inseguito dalla promessa sposa Molly, Gomes usa voci over nella lingua del paese in cui ci si trova in quel momento. E questa è la negazione stessa della cultura coloniale che portava all’omologazione linguistica all’interno dell’impero. In un pastiche linguistico, i protagonisti, Molly ed Edward, parlano portoghese, ancorché inglesi, comunque una lingua dei colonizzatori. Ma assistiamo anche alla reciprocità, nella scena in cui un maestro giapponese parla in portoghese a proposito dell’importanza delle ombre nella cultura nipponica, l’assunto del Libro d’ombra di Tanizaki. E il caleidoscopio linguistico prevede anche dei “bip” di censura.
Grand Tour è un wendersiano falso movimento in un itinerario che tocca Rangoon, Singapore, Bangkok, Saigon, Osaka, Shanghai. Un atlante sentimentale della cultura asiatica, che storicamente è venuta in contatto con i portoghesi nell’era delle grandi scoperte e attraverso i missionari. Non è la prima volta che il cinema portoghese si occupa dell’estremo oriente, basta pensare a A ultima vez que vi Macau di un altro regista chiave quale João Pedro Rodrigues. Quello di Gomes è un viaggio atemporale, seppur ufficialmente collocato nel 1918, dove si mescolano immagini d’epoca con filmati contemporanei, bianco e nero e colore. Le immagini attuali delle metropoli, con i treni moderni e le persone con smartphone, sono state girate da Gomes prima della pandemia, mentre la parte di fiction, del 1918, è stata realizzata nei teatri di posa, anche a Cinecittà. Gomes torna a riflettere sul concetto di tempo, dopo Diários de Otsoga, il più bel film sul lockdown, che funzionava secondo una linearità temporale invertita.
Grand Tour è un viaggio intriso di “saudade” tra giostre e paesaggi meravigliosi, distese di fiori di loto e grandi statue del Buddha scavate nella roccia, tra gente che gioca a mahjong e panda appollaiati sugli alberi. Gomes si lascia ancora andare all’estetica del cinema muto, con gli occhi di bue o le scene da comiche, in un film che non fa uso del digitale. Anche il linguaggio cinematografico è vintage, e si confronta con le forme di rappresentazioni teatrali asiatiche dalle tradizioni antichissime. Il regista mostra spettacoli tradizionali di marionette, di teatro delle ombre cinesi, una cultura diffusa in tanti paesi asiatici oltre la Cina. Il linguaggio del cinema, muto, dialoga con forme di spettacolo affini al precinema. Gomes fa un’operazione sulle diverse forme di rappresentazione, oltre al cinema, che ricorda quella del classico film giapponese Double Suicide di Masahiro Shinoda. Anche le musiche ammantano tutto di un’atmosfera retro, con Sul bel Danubio blu, My Way di Frank Sinatra, in versione tagalog, cantata in un karaoke, e Beyond the Sea, la versione in lingua inglese di Le mer di Charles Trenet, dalle sonorità molto simili a quelle di Perfidia, che ritmava Le mille e una notte.
Grand Tour è un dialogo tra oriente e occidente, tra passato e presente. Un incrocio di culture quando l’era coloniale è agli sgoccioli. Nel film se ne predice la conclusione («La fine dell’Impero è inevitabile»), mentre si afferma che l’uomo bianco non possa capire la cultura orientale, così lontana e indecifrabile, nonostante giapponismi e orientalismi, i grandi influssi sull’arte occidentale. Si tratta di un concetto che torna anche studiando il cinema orientale. Mentre Ozu sosteneva che gli occidentali non avrebbero mai potuto capire il suo cinema, Noël Burch partiva da quel concetto di inconoscibilità per il suo pionieristico e seminale saggio sul cinema nipponico, “To the Distant Observer: Form and Meaning in Japanese Cinema”, citando una poesia waka del decimo secolo di Ki No Tsurayuki: «Per un osservatore distante / stanno conversando dei fiori / eppure a dispetto delle apparenze / sono immersi in pensieri molto differenti».
Giampiero Raganelli