Fuori dalla grazia di Dio
Tra i nomi più attesi all’interno del concorso di questo 69° Festival di Berlino, vi è sicuramente quello di François Ozon. E se, negli ultimi tempi, il celebre cineasta francese ha spesso e volentieri fatto storcere il naso a pubblico e critica – pur dando vita, di quando in quando, a prodotti realmente notevoli – in questa occasione ha voluto cimentarsi per la prima volta con il lungometraggio d’inchiesta (pur mantenendo, ovviamente, il proprio marchio autoriale). Per l’esattezza, il regista ha focalizzato la propria attenzione su un recente scandalo che ha visto coinvolto un anziano prete – padre Bernard Preynat – il quale è stato accusato per aver abusato, negli anni Ottanta, di circa settanta bambini che sotto la sua guida avevano fatto i boy scout o i chierichetti. È così che ha preso vita Grâce à Dieux (Grazie a Dio, nella fedele titolazione italiana), in cui, attraverso tre storie, viene messo in scena il suddetto episodio, concentrandosi esclusivamente sul periodo in cui ha preso il via l’inchiesta.
Tutto ha inizio nel 2014, quando Alexandre (Melvil Poupaud), credente e sposato con figli, scopre che il suo carnefice ha da poco ottenuto un incarico nella sua città. Avrà inizio, così, un lungo iter che vedrà ben presto coinvolti molti altri nomi, ossia tutti quei bambini, divenuti ormai adulti, che un tempo avevano subito degli abusi da parte di padre Preynat.
Ciò che è maggiormente degno di nota, all’interno del presente lavoro, è soprattutto il cambio di punto di vista durante il corso della messa in scena. Se, infatti, dapprima la macchina da presa si concentra esclusivamente sul personaggio di Alexandre (credente e tradizionalista), a quasi un’ora dall’inizio l’attenzione si sposta immediatamente su François (Denis Ménochet), con una fede meno salda, ma altrettanto motivato a portare avanti la propria battaglia. Infine, per ultimo, arriva Emmanuel (Swann Arlaud), un uomo con problemi di epilessia e una vita allo sbando, completamente ateo. Tre diverse personalità, per altrettanti punti di vista, dunque. E nel fare questo, François Ozon si è rivelato particolarmente onesto e obiettivo. Non ha le pretese, questo suo lavoro, di rivelare al mondo nuovi aggiornamenti in merito a quanto accaduto. Non si vuole, qui, giudicare o emettere sentenze. Ciò che si vuol far vedere è una pluralità di pensieri che, tutti insieme, convergono verso un unico obiettivo: quello di combattere qualcosa che per troppo tempo è stato nascosto dall’omertà dei potenti, come dall’omertà delle stesse famiglie dei bambini abusati.
Ozon, dal canto suo, pur avendo mantenuto un profilo altamente autoriale, in cui fanno da protagonisti lunghi dialoghi e una macchina da presa stretta sui protagonisti, che quasi vuol tagliare via tutto ciò che non riguardi loro e le persone a loro strettamente vicine, rinuncia (per fortuna!) a ogni vezzo registico (come, ad esempio, scene pseudo oniriche, esperimenti in digitale et similia) che spesso ha fatto perdere parecchi punti a suoi interi lungometraggi. In poche parole, un interessante lavoro di sottrazione pulito e onesto, ben realizzato e ben interpretato, il quale, pur non rivelando nulla di nuovo e mantenendo, al contrario, un profilo molto più basso di quanto normalmente si faccia con i lungometraggi d’inchiesta, ha fortunatamente fatto sì che al regista venisse “perdonato” l’enorme scivolone fatto con il precedente (e recentissimo) Doppio amore.
Marina Pavido