C’è chi sale e c’è chi scende
Cominciamo con il dire che a scanso di equivoci e a dispetto del titolo scelto da Veit Helmer per la sua ultima fatica dietro la macchina da presa, ossia Gondola, di Venezia con laguna annessa, di calle e delle celebri imbarcazioni che da decenni ne solcano quotidianamente le acque non vi sono le minime tracce. Questo perché la pellicola scritta e diretta dal regista tedesco è ambientata in ben altra location, in un luogo di spettacolare bellezza che si trova in una valle verdeggiante tra le splendide montagne della regione georgiana dell’Adjara, una valle servita da una pittoresca funivia d’epoca che collega i villaggi di Khulo e Tago. Qui vive e lavora come addetta del suddetto impianto una giovane donna di nome Iva. La funivia ha due gondole, da qui il titolo dell’opera. Quando una sale, l’altra scende, incontrandosi lungo il percorso a metà strada. È così che Iva e Nino, l’addetto all’altra gondola, si conoscono: incrociandosi ogni mezz’ora. Finché una sera, si incontrano dopo l’orario di lavoro e tra loro scatta qualcosa, la cui scoperta la lasciamo ovviamente alla visione che nel nostro caso è avvenuta nel corso della 15esima edizione del Bif&st, laddove la pellicola è stata presentata nel concorso della sezione Panorama Internazionale.
Proprio alla kermesse pugliese, Helmer è tornato per accompagnare la proiezione del suo nuovo film a cinque anni di distanza dal precedente, quel The Bra che all’epoca aveva conquistato il pubblico barese. Chi come noi era presente o ha avuto modo di vederla altrove avrà ritrovato anche in Gondola il medesimo spirito e modus operandi, divenuti elementi caratterizzanti del cinema del regista berlinese, a cominciare dalla scelta di fare a meno dei dialoghi, affidandosi completamente al sound design, alle musiche, alla potenza delle immagini e alle performance attoriali. Non è la prima volta che ciò accade, basti pensare, escludendo ovviamente al periodo del cinema muto, al Mel Brooks di Silent Movie (in cui, simbolicamente, l’unica parola del film è pronunciata dal mimo Marcel Marceau) e più di recente a Juha di Aki Kaurismäki, Three Times di Hou Hsiao-Hsien e ovviamente al pluridecorato The Artist di Michel Hazanavicius, ai quali si va ad aggiungere anche Tuvalu dello stesso Helmer. A differenza di quelle dei colleghi che sono scelte estemporanee, quella del regista tedesco è diventata una vera e propria cifra stilistica con e attraverso il quale l’autore prosegue il suo viaggio in un cinema senza parole e poetico con un film creativo, burlesco, ricco di fascino e benevolenza che parla di legami, stati d’animo, sentimenti ed emozioni cangianti con un realismo magico che mescola senza soluzione di continuità verità e favola. Si finisce così con il parlare di temi universali, impegnativi e seri ma con un tono leggero, dei momenti di puro lirismo e con una delicatezza che permette alla storia e alle immagini di poggiarsi sullo schermo e sul cuore dello spettatore come una piuma, accarezzandone e scaldandone le corde.
E poi ci pensano le splendide interpreti Nino Soselia e Mathilde Irrmann a dare corpo alle intenzioni del regista con delle performance fisiche e mimiche di grandissima efficacia che, utilizzando le molteplici variazioni tenere e comiche della grande tradizione dello slapstick muto, riescono a comunicare il meraviglioso universo interiore dei rispettivi personaggi. Il tutto incorniciato da inquadrature cariche e portatrici sane di bellezza, tanto estetica (da segnalare la fotografia calda e avvolgente di Goga Devdariani) quanto compositiva, accompagnate da una punteggiatura musicale che riempie i silenzi. Peccato solo per una certa ripetitività nelle situazioni, con la timeline che tra una sorpresa e l’altra reitera scene fotocopia che si sarebbero potute asciugare o eliminare. Problematica che invece non si era presentata nei lavori precedenti Helmer. Ma in Gondola si tratta di qualcosa di assolutamente fisiologico, dettata giocoforza dalla natura di un plot minimalista, la cui narrazione si sviluppa a partire da una linea orizzontale semplicissima e priva di stratificazioni che vede le due figure principali interagire tra una salita e una discesa della funivia. Ciò non impedisce però a un’opera riuscita, gioiosa, produttivamente libera e senza tempo di conquistare e intercettare i gusti di un pubblico di tutte le età.
Francesco Del Grosso