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Gli orsi non esistono

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VOTO: 8

Sotto accusa

C’è un insegnamento in particolare, tra i tanti, che scaturisce dalla visione de Gli orsi non esistono, ultima opera di Jafar Panahi doverosamente premiata alla 79° Mostra del Cinema di Venezia: per realizzare un’opera politica in tutti i sensi possibili e immaginabili, è necessario semplicemente guardarsi attorno, mantenendo al contempo la capacità di uno sguardo “morale”. Sembra facile, ma non lo è affatto. Anche perché pochissimi cineasti riescono a mescolare così spontaneamente, in una finzione che mai appare come tale, differenti piani di realtà.
Iran, pochi mesi orsono. Jafar Panahi – il quale anche in quest’occasione, come ad esempio in Taxi Teheran (2015) risulta attore del film, interpretando se stesso – si trova in esilio in uno sperduto paese al confine con la Turchia, da dove sta girando un film da remoto grazie ad internet. La lavorazione si rivela particolarmente difficoltosa, a causa delle difficoltà di connessione e delle perplessità degli interpreti riguardo l’evolversi della trama. Nel frattempo Panahi viene suo malgrado coinvolto in una sorta di faida sentimentale a carattere famigliare all’interno del villaggio, finendo con l’essere accusato di occultare le prove di una relazione indebita tra una ragazza, già promessa sposa con un uomo del posto, con un altro spasimante. Entrambe le vicende, nonostante la buona fede di Panahi, si avvieranno a grandi passi verso una conclusione tragica.
Non è difficile leggere in controluce, attraverso per l’appunto una finzione più reale del vero come sempre accade nel cinema di Panahi, ne Gli orsi non esistono una perfetta istantanea dell’Iran odierno, peraltro di stretta attualità a seguito dell’inconcepibile morte della giovane Mahsa Amini, “rea” di indossare il velo in modo non adeguato. Un paese bloccato ad un’epoca remota, dove le convenzioni sociali e religiose dettano le regole di esistenze umane soffocate dal giogo di un regime a dir poco privo di scrupoli. Lo stesso Panahi, attualmente in stato di detenzione per fantomatiche attività contro lo stato islamico, sta pagando un prezzo molto alto nel voler difendere la propria libertà di espressione artistica. La metafora è dunque cristallina: gli orsi del titolo rappresentano la paura che incute il regime per mantenere, con ogni mezzo possibile, il potere. Accettare la loro non esistenza sarebbe il primo passo verso un lungo cammino di liberazione. Eppure la forza dirompente che consegue la visione di questo film non deriva certo solamente dall’atto d’accusa che pure rappresenta, al di là di ogni possibile chiave di lettura. L’epilogo, oltre a suscitare un senso di sgomento per il senso di ineluttabilità che veicola, invita anche ogni singolo spettatore – e non solo l’intero popolo iraniano – ad una scelta di carattere morale. Vogliamo rimanere immobili, paralizzati da timori esterni artatamente inculcati, oppure agire in qualche modo, rischiando in prima persona nel nome di un obiettivo chiamato democrazia compiuta?
Senza la minima traccia di quell’ironia che ha caratterizzato molti altri suoi lavori, stavolta Panahi affronta direttamente e prende il simbolico toro per le corna, avvisandoci che questo è il momento dell’ora o mai più. Tutti fattori, sommati all’abilissimo gioco di specchi tra realtà e finzione gestito alla stregua di vero e proprio Maestro della Settima Arte, che fanno de Gli orsi non esistono un lungometraggio assolutamente imperdibile.

Daniele De Angelis

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