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Gli arcangeli

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VOTO: 7.5

Non è il Paradiso

Guardare Gli arcangeli – opera prima di Simone Scafidi – ad oltre un decennio di distanza dalla sua realizzazione, rimane ancora un’esperienza totalizzante e, in qualche modo, scioccante. Un po’ come ammirare, e non necessariamente per la prima volta, il celebre “L’urlo” di Edvard Munch: un lungo, estenuato, grido di dolore di cui percepiamo distintamente il rumore solo nella nostra testa di spettatori. Non è per nulla invecchiato Gli arcangeli, anzi. Perché, a proprio modo, racconta una storia “universale”, quella dell’essere umano brutalmente conteso dalla intrinseca natura speculativa – esplicitata nel film da un’attrazione per la filosofia da parte del protagonista e del gruppo di persone che frequenta – e dalla religione cattolica, foriera di regole indotte le quali possono essere lette soggettivamente da chi le osserva. Esattamente come accade, in generale, nella triste quotidianità dei nostri giorni.
Christian (interpretato da un Andrea Riva de Onestis già allora generosissimo nel sintonizzarsi alla perfezione con l’atmosfera plumbea del film) è Christian, ragazzo problematico sin dall’infanzia. Ma la sua “dannazione” è una forma di sensibilità iper-sviluppata, fattore che lo rende soggetto a fantasie (?) di stampo mistico sin dalla più tenera età. Sarà l’enigmatico Padre Siro (un carismatico Franco Branciaroli) a fargli da sorta di Virgilio cangiante in quel girone infernale chiamato esistenza, una volta appurato che la vita intera altro non è che un calvario da percorrere in solitudine nei modi scelti. Il rigore stilistico pasoliniano, la predisposizione ad affrontare argomenti scomodi senza l’ombra di pretese scandalistiche ma anzi con la massima naturalezza, peculiarità in seguito espresse in altri lungometraggio come Eva Braun (2015), già si affacciano di prepotenza nel cinema di Scafidi. Il sesso è vissuto alla stregua di un rituale, la cui “sacralità” – sottolineata anche da una colonna sonora di matrice classica e perciò adeguata – lo svuota di qualsiasi forma comunicativa, lasciando solo brandelli di piacere che scompaiono frazioni di secondo dopo averli provati. Ad eccezione di un isolato e perciò significativo momento in cui pare che tra Christian e la sua ragazza Marlena (bravissima una giovane Francesca Inaudi) possa stabilirsi un contatto umano oltre che fisico. Preludio però ad un distacco con tutta probabilità definitivo.
L’assioma religioso messo in scena da Gli arcangeli, evidente sin dal titolo, è allucinatorio, vendicativo, per nulla incline al perdono cristiano. E infatti l’opera prima di Scafidi scava senza sosta nella psiche tormentata del personaggio principale, sviluppandosi su più livelli sempre nel segno di una strenua lotta per la sopravvivenza spirituale all’insegna del fatidico mors tua vita mea. Un cinema sempre sgradevole, a tratti profondamente respingente, ma che trova proprio in tali caratteristiche i suoi motivi di grande fascinazione. Anche perché alla fine, la quintessenziale domanda resta sempre la stessa: è l’essere umano nella propria soggettività a comporre il cosiddetto corpus sociale oppure è la società stessa, con tutte le sue sovrastrutture costruite nei secoli, a plagiare il singolo individuo? Risposta retorica.
Gli arcangeli è un’opera coraggiosa poiché sincera nel profondo e affatto consolatoria. Tutt’altro. Capace di trasformare le imperfezioni di regia e sceneggiatura – che ci sono e ci sarebbe mancato altro, trattandosi di ambizioso lungometraggio d’esordio, peraltro realizzato a nemmeno trent’anni di età da Scafidi – in segnaletica del tutto integrata ad una messa in scena che conduce verso una strada priva d’uscita. Come testimonia un epilogo che è allo stesso tempo drammatica rappresentazione del reale e metafora di esso. Un modello di cinema al quale in Italia non siamo (tuttora) abituati e chissà mai se lo saremo; per quanto siamo irrimediabilmente avvezzi ad essere condotti per mano nell’ambito di una, passiva e rassicurante, narrazione convenzionale.

Daniele De Angelis

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