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German Angst

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VOTO: 7.5

Dalla Germania con furore

Di questo film a episodi, la cui visione ha lasciato in dote molteplici suggestioni, ci si trova ora a scrivere tenendo una colonna sonora piuttosto particolare, per non dire pittoresca, in sottofondo: Arminius – Furor Teutonicus, l’incalzante concept album dei Rebellion. Non cercate però chissà quali sofisticati raccordi tra il power metal della band tedesca, lanciatasi nella circostanza in una roboante celebrazione della sconfitta romana a Teutoburgo, e quanto narrato nel corposo lungometraggio di cui si parla. Non vi è, molto semplicemente, alcun collegamento diretto.
E infatti, per quanto “paura” e angoscia” risulterebbero qui traduzioni più appropriate, ci piaceva giusto un’idea, quella di rendere con il latineggiante “Furor Teutonicus” l’azzeccatissimo titolo, German Angst, col quale gli autori hanno voluto riassumere il loro lavoro a ridosso di un immaginario decisamente malato, disturbante, selvaggio. Tanto feroce quanto ci si poteva aspettare, giustamente, da tre rappresentanti duri e puri del miglior cinema di genere realizzato, in anni più o meno vicini, all’interno della nazione tedesca.

Presentato al 36° Fantafestival avendo peraltro in sala uno dei tre registi, Andreas Marschall, e la sempre più brava Désirée Giorgetti, attrice italiana impegnata proprio nel suo episodio, German Angst ci ha riportato alla memoria sensazioni analoghe provate anni fa al Ravenna Nightmare, di fronte a un altro film a episodi: Little Deaths di Sean Hogan, Andrew Parkinson e Simon Rumley. In quel caso erano stati tre fra i migliori esponenti del panorama underground britannico a testimoniare la vivacità di tale cinematografia, attraverso un’apprezzabilissima varietà di sguardi e di ossessioni autoriali. Questa volta è toccato ai tedeschi. E pur con un incedere forse più macchinoso nei primi due capitoli, non sono stati certo da meno…
Soffermiamoci perciò più specificamente sui tre episodi diretti rispettivamente da Jörg Buttgereit, Michal Kosakowski e Andreas Marschall. In German Angst la cornice è quella di una Berlino dove si avvertono tensioni sommerse, che riveleranno una natura ora cronachistica e ora razziale, ora artistica e ora storico-politica. Ma è ovvio che la sfaccettata quotidianità della metropoli tedesca sia principalmente il pretesto, lo sfondo di storie sanguinolente, dall’alto potenziale orrorifico. Nel segmento del berlinese (per l’appunto) Jörg Buttgereit, Final Girl, dettagli stranianti ci illustrano il risveglio, solo apparentemente tenero, di una ragazzina e del suo porcellino d’india. Ma già la descrizione delle cure subite in passato dal grazioso animaletto, assieme alla notizia giunta dai media di un ripugnante caso di cronaca, lascia intendere come si cambierà ben presto atmosfera. C’è un uomo legato al letto, nella dimora dell’adolescente. E le torture, le mutilazioni che quell’uomo subirà sono realmente da brividi…
Pur con qualcosa di eccessivamente ermetico nel background dei personaggi, il sadico Buttgereit, che del gruppetto di cineasti può essere considerato un po’ il veterano, pare divertirsi a riproporre gli appetiti necrofili, le carrellate fortemente ansiogene e i particolari disturbanti che caratterizzano la sua filmografia sin dai tempi di Nekromantik (1987) e Nekromantik 2 (1991). Niente di nuovo sotto il sole, volendo, ma tutto molto ben costruito a partire dall’atmosfera claustrofobica e opprimente.

Di Michal Kosakowski tocca confessare, invece, che sapevamo ben poco. Con Make a Wish colui che figura anche quale produttore del film ci ha comunque sorpreso, regalandoci una inquietante parabola, collocata tra il presente e la Seconda Guerra Mondiale. Il violentissimo pestaggio di una coppia di giovani polacchi sordomuti da parte di una banda di naziskin finisce infatti per legarsi, complice l’amuleto posseduto dalla stessa coppia, col ricordo di un efferatissima strage compiuta dall’esercito tedesco proprio in Polonia. Attraverso un evento di natura esoterica il ruolo delle vittime e quello dei carnefici viene messo per un attimo in discussione. Ma, seppur attraverso un twist narrativo forse affrettato, espresso in forma non così chiara, si profila un epilogo psicologicamente devastante e corredato di profonda amarezza.
Dulcis in fundo, Andreas Marschall. Il cineasta tedesco, che aveva già fatto impazzire gli amanti del genere con Tears of Kali (2004) e Masks (2012), conferma qui di essere un particolare e raffinatissimo tessitore di incubi. Il suo episodio, Alraune, in certi aspetti può non essere originale quanto i lungometraggi precedentemente diretti: la stessa idea del club esclusivo, rivolto a individui facoltosi e perversi, fa venire in mente tante cose, dall’eccelso Eyes Wide Shut di Kubrick al più recente Tulpa di Zampaglione. Eppure, nella vicenda del fotografo di successo in crisi sentimentale che si fa tentare dall’appartenenza allo strano circolo, convergono tante ossessioni su cui Marschall, anche a livello visivo, sa lavorare magnificamente: lo straniamento offerto da ambienti carichi di mistero, il grottesco insito nelle figure appartenenti alla setta, le mutazioni del corpo, la fase onirica.
Complice l’affiatamento degli interpreti, tra cui il protagonista Milton Welsh e la nostra Désirée Giorgetti, l’immaginazione sfrenata di Andreas Marschall ci fa sprofondare in una allucinazione erotica dai contorni pericolosissimi, la cui origine viene ricondotta tra l’altro a credenze dotate di un fascino oscuro: quelle legate alla radice della Mandragora e ai suoi leggendari poteri.

Stefano Coccia

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