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Fulci for Fake: interviste

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Approfondendo Fulci for Fake

Fulci for Fake di Simone Scafidi è un’opera di duplice importanza. In primo luogo perché affronta, senza tentazioni agiografiche, una figura quintessenziale del cinema di genere italiano come Lucio Fulci; in seconda battuta per il modo in cui compie tale indagine, giocando virtuosisticamente sul labile confine tra verità e leggenda.
Abbiamo dunque posto alcune domande al regista Simone Scafidi, all’attore deputato ad interpretare Fulci Nicola Nocella e alla figlia di Fulci Antonella. Questo è il resoconto.

Iniziamo la nostra chiacchierata con Simone Scafidi, il regista del film.
D: Quando e come nasce la tua passione per il cinema di Lucio Fulci?
Simone Scafidi: Quando ho 15 anni e, leggendo “La storia del cinema dell’orrore volume 3” edita da Fanucci, scopro i film di Lucio Fulci, peraltro maltrattati in quel libro. Ma i loro titoli, da …e tu vivrai nel terrore!L’aldilà fino a Non si sevizia un paperino, mi fanno immaginare un mondo che devo assolutamente incontrare. Cerco così, a fatica, nelle videoteche di Tortona, la mia città, i suoi film. Nel 1993 Fulci era inattivo e quasi totalmente dimenticato, nessuno sembrava conoscerlo. Riesco comunque a vedere Quella villa accanto al cimitero e Lo squartatore di New York e subito trovo in quel regista una carica eversiva di cui mi innamoro. Pochi mesi dopo acquisto “L’occhio del testimone” di Michele Romagnoli, l’unico libro allora esistente sul regista. Quel testo, anche attraverso le dichiarazioni dello stesso Fulci, diventa una sorta di libro sacro per me. La bibbia di quello che stava diventando non il mio regista preferito – quelli erano Kubrick, Pasolini, Welles, Fassbinder, Lynch -, ma quello che sentivo maggiormente mio. Un regista di cui credevo di aver scorto solo io la meraviglia, che invece ai più sembrava oscura. In realtà, già allora in tanti si erano accorti da tempo del valore di Fulci. E oggi, in tutto il mondo, è uno dei registi italiani più amati e idolatrati.

D: Perché un documentario, peraltro molto particolare, su Lucio Fulci e non su altri registi del bis italiano?
Simone Scafidi: Perché penso che Fulci sia il più grande tra gli autori italiani che si sono mossi nei generi. Il successo che oggi ha, con edizioni restaurate dei suoi film, action figure dei suoi personaggi, libri e omaggi citazionistici ogni due per tre, non ha paragoni con quello di altri suoi colleghi. Il suo cinema è visto, quindi è vivente. E poi perché la sua figura umana, così indissolubilmente levigata dal mito che lui stesso aveva creato di sé, con aneddoti che facevano sempre rima con leggenda, mi sembrava qualcosa di insondabile. E quindi degna di un film.

D: Quanto tempo hai dedicato alla preparazione del film, prima dell’effettiva lavorazione?
Simone Scafidi: In realtà poco, ma solo perché studio Fulci da 25 anni. L’idea del film è nata ad aprile 2018 e sei mesi dopo eravamo già sul set. I due cardini del film sono per fortuna emersi in fretta. Il primo è che non volevo realizzare un documentario fatto solo di interviste, repertorio e, soprattutto, che avesse un didattico incedere del tipo ‘Lucio Fulci è nato a Roma nel 1927, ha studiato al Centro Sperimentale di Roma, ha fatto lo sceneggiatore e l’aiuto regista…’ e via dicendo fino alla sua morte. No, per Fulci, il terrorista dei generi, ci voleva un film non paragonabile ad altri esempi di biopic. E infatti, questo non è un giudizio di merito, Fulci For Fake non assomiglia a nessun altro film, grazie soprattutto alla scelta di avere Nicola Nocella che interpreta un attore che deve recitare la parte di Fulci in un film. Un meccanismo a scatole cinesi che finisce per rendere densa la narrazione, come lo è stata la vita di Fulci. Il secondo elemento portante era quello di avere nel film entrambe le figlie del regista, Antonella e Camilla. Volevo la carne e il sangue fulciani, la diramazione di un uomo che è stato cresciuto da donne, ha amato tante donne e ha generato due donne. Camilla, che aveva sempre rifiutato di rilasciare interviste in video, per la prima volta – e, purtroppo, ultima – compare davanti alla camera. Lei è una sorta di emanazione simbiotica del padre, quasi lo imita nel modo di parlare. Suo padre era l’ultimo legame che le era rimasto con la vita. E, proprio per questo, riempie il film di racconti che spaziano dal dolore al divertimento in maniera impressionante. Antonella compare invece nei minuti conclusivi del film, per il ruolo di tessitrice finale delle trame che il protagonista pensava di aver dispiegato per trovare il vero Fulci. Antonella – che, oltretutto, ha impreziosito il film donandoci inediti e mai visti prima home movies e backstage girati dal padre – con poche, ma dense parole, riesce a dare l’immagine definitiva del padre e del suo essere incasellabile.

D: Nel corso di Fulci For Fake il regista Michele Soavi accenna a rapporti non proprio idilliaci tra Fulci e un certo tipo di attrice, menzionando il caso di Antonella Interlenghi in Paura nella città dei morti viventi. Avete provato a contattare lei od altre interpreti per avere un altro punto di vista sui rapporti tra Fulci e le donne sul set?
Simone Scafidi: No. Anche perché l’esempio che cita Soavi non è idiosincratico nei confronti del genere femminile, ma della categoria interprete/divo: non a caso sono moltissimi gli aneddoti su Fulci che si scagliava contro attori uomini. Il tema del rapporto con le donne è affrontato nel film attraverso le parole delle figlie e quelle di Berenice Sparano, moglie di Sergio Salvati e costumista in alcuni film di Fulci. Le donne erano una delle tre passioni di Fulci che si affrontano nel film, insieme ai cavalli e al cinema. Antonella Interlenghi ha comunque già raccontato altrove del suo rapporto con Fulci. Così come l’ha fatto Cinzia Monreale, una delle interpreti che ha avuto un miglior rapporto con Fulci. Ho cercato di raccontare l’amore e il desiderio di Fulci nei confronti delle donne soprattutto nelle scene con Nocella, sia nel modo in cui lui interpreta Fulci al cospetto delle attrici, sia per come l’attore stesso vive una relazione cadenzata dalle riflessioni di Fulci stesso sul suo rapporto con l’altro sesso.
Restando al tema del gender, mi preme sottolineare come questo film sia stato prodotto da una giovane donna, Giada Mazzoleni. Fulci For Fake era praticamente l’unico film italiano della selezione ufficiale alla Mostra di Venezia in cui non ci fossero di mezzo Rai, Istituto Luce, Sky o case di produzione di vergata fama. Non che avere queste partnership sia un demerito, anzi è un valore aggiunto, ma lo ricordo per rimarcare la vera indipendenza di questo film, costruito da una giovane con la sua sola abilità. Eppure, di questa componente femminile di Fulci For Fake nessuno ha parlato, nonostante sia un periodo in cui il tema del lavoro femminile nel cinema sia così al centro di discussioni e convegni.

D: Il concetto di “fake” mai come oggi risulta di stretta attualità. Dalle news al gossip pare che ogni mezzo sia lecito per attirare attenzione. Secondo te, in linea generale, dal palesemente falso si può arrivare ad una possibile verità?
Simone Scafidi: Fulci non mentiva, non falsificava la sua vita, semplicemente la arricchiva, la creava a sua somiglianza come faceva con i film. Le balle erano una chiave per mostrarsi per quello che, nel profondo, lui era veramente. Nel mio film cerco di portare il protagonista a scalfire la corazza di mitologia che protegge la natura più profonda e pura di Fulci, ma alla fine il concetto è che Fulci e la sua essenza si nascondono nella sua opera, nelle sue passioni, nelle sue figlie. Un pezzo di qui, un pezzo di là, per un mosaico che non è facile da completare.

D: Alla fine della lavorazione di Fulci For Fake ti pare di aver conosciuto più in profondità la figura di Lucio Fulci oppure sono aumentati i dubbi su di lui, inteso come personalità?
Simone Scafidi: Molti aspetti intimi, segreti, dolorosi che ho scoperto su Fulci non li ho inseriti nel film, perché a me non interessava buttare in faccia allo spettatore delle presunte rivelazioni, ma spingerlo a conoscere Fulci a fondo, a farsi delle domande su un uomo che spesso è stato ridotto a un travolgente parlatore, tanto brillante e intelligente quanto cinico ed egoista. Fulci era un uomo che si è goduto la vita, che avrebbe forse potuto ottenere di più, ma non ci è riuscito perché non ha mai potuto frenare il demone che albergava in lui e che lo spingeva a parlare e a dire sempre quello che pensava, in faccia a tutti e senza curarsi di mettere a repentaglio la propria carriera. Paradossalmente, credo sia questo il suo ritratto migliore: un uomo che reinventava costantemente la realtà, tranne quando avrebbe dovuto farlo per non ferire le code di paglia dei poteri forti del cinema.

Passiamo ora all’attore Nicola Nocella.
D: Conoscevi il cinema di Lucio Fulci prima della realizzazione di Fulci for Fake?
Nicola Nocella: No, onestamente no. Conoscevo, ovviamente, una parte del cinema di Fulci, sapevo della sua rilevanza e necessità, all’interno della storia del Cinema mondiale, più che nazionale, ma non lo conoscevo bene. Non sono un amante degli horror, non lo sono mai stato, anzi, e per quanto Fulci fosse un terrorista dei generi, aveva questo approccio così carnale alla macchina da presa che lo portava sempre a essere un po’ più “gore” di quanto uno si potesse aspettare. Ma, ovviamente, da amante della storia del cinema, conoscevo molti dei suoi titoli e il l’impatto che avevano avuto sia al tempo, che oggi.

D: Dai personaggi che hai interpretato nel corso della tua carriera – pensiamo ad esempio a Belli di papà e Easy – Un viaggio facile facile – trapela sempre un forte carico di umanità. Come ti sei approcciato ad una figura tuttora controversa e avvolta nel mistero come quella di Fulci?
Nicola Nocella: Sono passionale. In tutto quello che faccio. Figuriamoci nel mio lavoro, che è tutto ciò che mi rimane. Sono stato fortunato, perché i film che hai citato avevano due grandi registi, così come questo: io posso dare tutto quello che ho solo quando sono diretto bene, quando mi fido di chi comanda, quando so che sto seguendo qualcuno che sa dove andare. Simone (Scafidi) è stato il mio Virgilio, nel viaggio all’interno del cinema falciano; il suo amore è diventato il mio, la sua passione la mia. Sentir parlare Simone de L’aldilà mi ha permesso di innamorarmi di un film così lontano dai miei canoni: la passione del protagonista di questo film è in primis la passione di Simone, che è riuscito benissimo a trasmettermi. Io di mio ho fatto pochissimo, se non fidarmi. E ne è valsa la pena.

In ultimo, ma non certo per importanza, alcune questioni poste ad Antonella Fulci, figlia del regista.
D: In cosa consiste, oggi, l’eredità di Lucio Fulci come autore di cinema e come uomo?
Antonella Fulci: Molti film che restano incredibilmente attuali, nonostante gli anni, o meglio i decenni che nel cinema equivalgono a ere geologiche, che passano. Capita alle volte, guardando un film, di pensare che determinate scene, riportate ad oggi, perderebbero senso. Ad esempio, quando una telefonata persa diventa la svolta di un film e tu pensi che oggi, con i cellulari, sarebbe andata diversamente. Ecco, nei film di Fulci non succede mai, gli zombi non risorgono per una contaminazione umana riconducibile a un’epoca ma per l’eterna magia del Voodoo, e l’ignoranza umana che regna in gialli come Non si sevizia un paperino, ahimé, è la stessa di quei tempi. Per non parlare della politica che si respira in commedie ormai antidiluviane come quelle con Buzzanca, o in un ‘musicarello’ come Urlatori alla Sbarra. Chi, onestamente, potrebbe dire che nei palazzi della politica è cambiato qualcosa, da quei tempi? Forse il motivo della trasversalità dell’affetto dei fan per i suoi film si basa su questo. Il diciottenne, come l’anziano, ci vede qualcosa che riconosce. Potrei dire che tutto questo ha del miracoloso, ma mio padre che detestava i termini roboanti, si incazzerebbe. Parlando di eredità umana, è bello vedere come basta nominarlo a qualcuno che l’ha conosciuto, anche per il tempo di una breve conversazione telefonica, per vederlo sorridere. Potrei dire che fuori dal cinema non esisteva, perché ogni sprazzo di vita con lui, ogni conversazione, era un film creato da lui, con una trama che, alla fine, non importava quanto fosse veritiera, ma quanto fosse piacevole da guardare, ed ora, da ricordare.

D: La tua testimonianza, nella parte finale di Fulci For Fake, ci regala preziosi squarci di vissuto nel rapporto con tuo padre. Quale è il ricordo più vivido che conservi di lui?
Antonella Fulci: Quello di un ragazzino mai cresciuto. Un Mozart della vita, anziano fuori ma sempre bambino dentro, per cui una risata valeva più di mille conversazioni profonde. Per lui la vita aveva un senso quando riusciva a trovare il modo di riderci sopra, e parlo anche di situazioni estremamente gravi e drammatiche in cui cercava di manipolare la realtà per riuscire a trovarci un lato divertente, e posso dire che ci riusciva quasi sempre, grazie al suo humor nerissimo. Aveva un piede sanguinante a causa del diabete? Per lui anche quel piede diventava un personaggio, invitandoti a salutare ‘il piede’ quando gli dicevi buongiorno la mattina. Chiamava uno scocciatore, un creditore o una qualunque delle categorie che temeva come la peste? Cominciava lo spettacolo. Potevi sederti di fronte a lui armato di popcorn, sicuro di goderti uno show irresistibile, per come si girava intorno al dito il malcapitato, rincoglionendolo letteralmente di chiacchiere, e riuscendo nella maggior parte dei casi a tirarlo dalla sua parte, mentre tu stavi lì, piegata in due dalle risate a chiederti come caspita facesse a ‘fregarli’ sempre. Nei suoi ultimi anni, quando lo ritrovai dopo secoli di liti ed incomprensioni domestiche, trovai un uomo a cui mancava un pezzo, che si vedeva che non rideva più da molto. Bastò portarlo un po’ in giro, radunare un po’ di amici e fan che gli volevano bene per vederlo rifiorire, noncurante degli acciacchi che lo affliggevano, più dirompente di prima. Non dimenticherò mai la sera della festa finale di un Mystfest, a Cattolica. La festa si svolgeva su una nave, luogo impervio per uno in sedia a rotelle, ed io mi allontanai un attimo per visitare l’imbarcazione, bellissima ed adornata a festa, raccomandandogli di chiamarmi ad ogni evenienza. Torno e non lo trovo più. Impanicatissima mi metto a cercarlo, temendo fosse caduto in mare o chissà cosa, finché non sento una voce che sembrava la sua, tra un brusio di risate e chiacchiere a voce alta, proveniente da una tolda altissima della nave da cui si accedeva solo tramite una scala a pioli. Incredula salgo la scala e lo trovo lì, spaparanzato sulla sedia a rotelle, in mezzo a una folla di amici e ragazzi che ridevano con lui. Gli chiesi come aveva fatto ad arrivare lassù, lui mi guardò come si guarda una deficiente e mi rispose: embè? Mi ci hanno portato, e continuò a chiacchierare coi suoi amici. Questo era lui, e questo è il ricordo che ogni volta mi fa sorridere. Se solo avessi preso da lui la faccia tosta e quel suo modo di rigirarsi bonariamente il prossimo, penso sarei arrivata molto in alto. Ma mai al punto di far accollare a qualcuno una sedia a rotelle da ottanta chili su per una scala a pioli. Se riesci a fare quello, vuol dire che sei unico, come era lui.

Daniele De Angelis

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