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Francesco Rosi, lo specchio al buio

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Il saluto a Francesco Rosi

Confessiamocelo: una paura nemmeno troppo latente offusca persino il dolore per la scomparsa di Francesco Rosi, morto il 10 gennaio 2015 a novantadue anni d’età. Il timore che il cinema di Rosi sia già stato “dimenticato” da tempo, rimosso non solo dalle ultime generazioni di appassionati e non della Settima Arte. Questo perché l’arte del regista nativo di Napoli era, per sua stessa natura, molto scomoda. Se Giulio Andreotti pronunciò, a proposito del neorealismo, la famosa frase sulla necessità che “i panni sporchi si lavino in casa, non in pubblico”, è possibile affermare con ragionevole certezza che Rosi, quei medesimi panni, li ha fotografati così come erano, cioè insozzati di tutti i peggiori mali italiani. E lo ha fatto attraverso un talento essenziale con pochissimi riscontri nel nostro cinema, perfettamente piegato ad una causa in cui ha sempre creduto fermamente: quella secondo la quale, una volta guardato direttamente il marciume, l’indignazione, la partecipazione popolare potesse trovare una cura allo scempio. Un’utopia, forse. Poiché i mali del nostro paese sono tutti ancora lì, intonsi e immarcescibili. Forse addirittura peggiorati, anche se non ne abbiamo più un’esatta percezione. Per quel che riguarda il cinema, quello di Francesco Rosi era un po’ come il termometro in grado di misurare la febbre. Ed altri, all’orizzonte, non se ne sono visti da tempo e non se ne vedono. Da qui la grande paura nei confronti di un paese capace, a maggior ragione nei momenti topici, solamente di nascondere la testa sotto la sabbia.
Cinema di denuncia, lo si è sempre definito. Ma con un buon margine di inesattezza. Rosi non voleva semplicemente denunciare, portare alla luce determinate situazioni. Bensì scuotere, anche in modi brutali, più di qualche coscienza dal torpore. Salvatore Giuliano (1962) – Orso d’Oro al Festival di Berlino, tra gli altri numerosi riconoscimenti – racconta un segmento universale della nostra storia, non solo quella personale di un uomo sbrigativamente definito “bandito”. E Le mani sulla città (1963) – Leone d’Oro alla Mostra di Venezia – non è un’ordinaria storia di corruzione tricolore, ma un racconto di precisione entomologica su quel processo “naturale”, almeno negli italici territori, di osmosi tra politica e criminalità. Una visione delle cose profondamente etica, talvolta messa al servizio di opere straordinarie su e contro altre tematiche da lui considerate altamente sensibili come ad esempio il conflitto bellico, con tutte le sue insite storture e contraddizioni. Lo straordinario Uomini contro (1970) ne è appunto una dimostrazione pressoché perfetta. Il suo cinema di grande impatto civile si identifica nel volto problematico dell’attore Gian Maria Volonté, eletto immagine simbolica del suo modus operandi. Insieme girano l’illuminante, avanguardistico Il caso Mattei (1972) – Palma d’Oro al Festival di Cannes – parabola umana esemplare sul significato di vivere e agire controcorrente, cioè occupandosi di soldi pubblici nell’interesse di tutti e non privatistico di un paese senza speranza. Poi, ancora con Volonté, l’eccellente Cristo si è fermato a Eboli (1979), tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Levi a raccontare un esilio fascista  che diviene poeticamente la fine di un percorso e l’inizio di un altro. Una dimensione maggiormente intima che trova il suo zenit in Tre fratelli (1981), al contempo lucido esame antropologico sull’elaborazione di un lutto nonché presa di coscienza dell’inevitabilità del tempo che passa.
Tanto altro ancora si potrebbe scrivere, a proposito di Francesco Rosi e del suo cinema. Significherebbe però ripetersi all’infinito sull’essenza di un cineasta unico che è pienamente riuscito, nonostante qualche battuta a vuota nella parte finale della sua filmografia – in particolare le difficoltose trasposizioni letterarie da Cronaca di una morte annunciata (1987) dal testo di Gabriel Garcia Màrquez e La tregua (1997), dal romanzo omonimo di Primo Levi e suo ultimo lungometraggio – ad illuminare la parte buia di un’intera nazione, facendola specchiare senza moralismi di sorta o compromessi di alcun tipo nei propri (tanti, troppi) vizi e nelle scarne virtù.
Un patriota come pochi altri, verrebbe da definirlo. E, conseguentemente, ricordarlo…

Daniele De Angelis

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