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Foxcatcher

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VOTO: 7.5

Fame, puts you there where things are hollow

Come per ogni edizione degli Academy Awards, anche quest’anno è opportuno interrogarsi sull’esaustività dei riconoscimenti concessi alle pellicole in competizione, e per far questo, oltre alla stima degli Oscar effettivamente portati a casa, è necessario anche tener conto delle candidature ottenute: se ci si attiene a questi parametri, non è difficile rilevare come Foxcatcher sia stato il film più sottostimato di questi ultimi Academy Awards, considerando che non si è aggiudicato nessuna statuetta e che, fatto ancora più curioso, non è stato incluso nella categoria “Best Picture”. Come sempre avviene in certe occasioni, una negligenza del genere è spiegabile solo parzialmente. Foxcatcher tratta di una storia americana, ma non una fra quelle adatte a rievocare gli ideali nobili ed egualitari del nuovo continente: Foxcatcher racconta la vera storia dell’omicida John Du Pont, erede dell’immensa fortuna della famiglia Du Pont, che nel 1987 propose ai fratelli lottatori Dave e Mark Schultz, vincitori delle scorse Olimpiadi, di trasferirsi presso la sua tenuta in Pennsylvania, dove aveva fatto costruire uno spazioso impianto per il wrestling. Le condizioni per un ripiegamento su di un impianto cronachistico o per una ricostruzione fin troppo cinematografica ci sono tutte, eppure Foxcatcher riesce a servirsi del materiale a disposizione per affrontare con estrema delicatezza ed intelligenza i vari aspetti delle relazioni umane, e di quelle familiari in particolare, nelle quali giocano un ruolo fondamentale gli agenti della stima, dell’invidia, della fiducia e dell’onore.
Il film prende forma intorno alle tre figure di Du Pont, Mark Schultz e Dave Schultz, si sviluppa concentrandosi sui rapporti che uniscono ciascuna di esse alle altre due, e lo fa adottando un punto di vista dinamico, consapevole della continua ridefinizione a cui ogni relazione normalmente va incontro. John Du Pont, eccezionalmente interpretato da un irriconoscibile e inquietante Steve Carell, è un individuo sfuggente quanto il suo sguardo, dal tono di voce piatto che sembra sempre in procinto di spegnersi, di andatura estremamente goffa ed esternante tutto il disagio del personaggio: Du Pont vorrebbe essere mentore e leader, ma gli altri vedono in lui un figlio disperatamente in cerca di riconoscimento da parte di una madre inguaribilmente anaffettiva, la quale, quando era un bambino, preferì rimediare alla sua solitudine pagando il figlio dell’autista per essergli amico piuttosto che assumersi in prima persona la responsabilità di dedicargli le cure necessarie. E’ quindi perfettamente comprensibile che Du Pont consideri illimitato il potere d’acquisto del denaro, e non riesca a figurarsi i motivi familiari che anche possono orientare le nostre scelte. Per lui la famiglia è un’istituzione, una piramide gerarchica, cullante e calorosa quanto può esserlo la sua collezione di volatili imbalsamati o di trofei di caccia. Eppure, per quanto le capacità di interazione con gli altri esseri umani siano in Du Pont notevolmente ridotte, a volte è sufficiente un ragionamento anche di bassa lega per legare a sé uno di loro, soprattutto se è particolarmente influenzabile perchè insoddisfatto e frustrato: così Mark Schultz, interpretato da Channing Tatum (che si riconferma essere una buona scelta quando si tratta di ruoli che necessitano di una forte presenza fisica), si sente finalmente riconosciuto nel momento in cui è motivo d’orgoglio per Du Pont, il quale alimenta i suoi sentimenti potenzialmente ostili nei confronti del fratello Dave, colpevole di impedirgli di brillare come potrebbe. La relazione tra Du Pont e Mark Schultz vuole essere paritaria, e l’avvicinamento tra il maestro e l’allievo è facilitato dall’infanzia incompleta e difficile che i due condividono, considerando il precoce divorzio dei genitori e i numerosi trasferimenti che Mark e Dave han dovuto affrontare da piccoli. Ma se è possibile che tra uno degli Schultz e Du Pont si instauri una relazione relativamente sana e benefica, nel momento in cui questa, sotto le manovre di Du Pont, tenta di accogliere al suo interno il fratello Dave l’equilibrio immediatamente si sgretola: e allora la gratitudine di Mark verso il milionario si tramuta in un livore isolante, che lo condannerebbe ad un destino di autodistruzione se il fratello Dave non accorresse a salvarlo. Il legame, il quale, quando diadico, aveva qualifiche sufficienti per assicurarsi la sopravvivenza, non riesce ad essere inclusivo a causa dei sentimenti complessi ed ambivalenti che caratterizzano il rapporto tra i due fratelli Schultz. Il personaggio di Dave Schultz, interpretato da Mark Ruffalo che ci consegna la prova d’attore più stupefacente del film, ha chiaramente tutte le potenzialità e le caratteristiche del leader, a differenza di Du Pont, e si distingue da quest’ultimo anche per avere un sistema di valori ben ordinato, che non anteporrebbe mai ai doveri verso il fratello e la la famiglia le pretese della fama e del denaro. Dave ha una personalità delicata e sincera, minimale nella mimica facciale e nell’uso delle parole, segni questi di un’indole ferma e ben piantata su se stessa, che non ha bisogno di orpelli retorici per affermarsi. Bellissime le scene che mostrano i due fratelli nei loro momenti d’intimità, il contatto e gli abbracci spasmodicamente ricercati da Dave e che Mark non è sempre disposto a ricambiare: quella che, dopo il fallimento di Mark alle eliminatorie delle Olimpiadi, vede quest’ultimo abbandonarsi all’abbraccio consolatorio del fratello, sembra quasi una Pietà michelangiolesca, e suggerisce la grande distanza che intercorre tra una relazione autentica e disinteressata ed una che scaturisce dal bisogno di una conferma del proprio valore.
L’accusa di procedere lentamente e faticosamente, spesso imputata a Foxcatcher, è piuttosto un sintomo di disattenzione e soggettivo disinteresse nei confronti della pellicola, che se adeguatamente fruita, oltre a rivelare la necessità di ogni suo singolo episodio, regala momenti di alto cinema, con scene straordinarie e aperte all’interpretazione: Du Pont che con un gesto brusco ed impulsivo fa uscire dalla stalla i cavalli della madre appena deceduta, Mark ripetutamente ripreso mentre contempla la sua immagine allo specchio e contro il quale finirà per sbattere rabbioso la fronte, il dorso della mano senza vita di Dave con su scritto il noto promemoria “andare a prendere i bambini”, a suggerire che forse, ma solo questa volta, la logica dell’anaffettività e del denaro ha sconfitto quella dell’amore e dei valori familiari.
Sono invece imputabili a Foxcatcher una rappresentazione eccessivamente manichea della situazione che racconta, con uno Steve Carell reso decisamente troppo irriconoscibile da una maschera giustapposta al suo viso (che, per altro, non lo rende più somigliante al Du Pont originale), la quale purtroppo impedisce di valutare la performance attoriale con l’esaustività necessaria: tutto questo per restituire un’immagine di Du Pont inquietante e mostruosa al massimo grado, al limite dell’umanità, nella convinzione che il male più temibile sia quello assoluto e non quello ambiguamente mescolato al bene. Così facendo il film tradisce per altro lo sforzo che si era dimostrato in grado di arrogarsi, quello di comprendere (che non significa affatto giustificare) il comportamento violento di Du Pont alla luce del suo passato e delle sue problematiche inespresse. Foxcatcher rimane in ogni caso un lavoro ben riuscito, di grande perizia tecnica e registica, contraddistinto da un cast di grande livello e da uno stile minimale e potente al tempo stesso, caratteristiche queste che lo rendono un film tutt’altro che trascurabile: noi riteniamo quindi che avrebbe meritato un riconoscimento più dignitoso.

Ginevra Ghini

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