Una voce nel silenzio
Germinal Roaux aveva 14 anni quando la visione de Il cielo sopra Berlino lo fece innamorare della Settima Arte al punto tale da convincerlo a fare del cinema e della fotografia le sue professioni. Ora che è diventato un apprezzato cineasta e fotografo con all’attivo una serie di lavori dietro la macchina da presa e un portfolio di scatti di tutto rispetto, l’artista svizzero ha fatto di quella scintilla il fuoco che anima e caratterizza i temi e gli stilemi delle sue produzioni. Sfogliando i suoi bellissimi ritratti e guardando ogni singolo fotogramma delle sue creazioni audiovisive ci si rende conto quanto la visione della pellicola di Wim Wenders abbia influenzato il suo sguardo e il modo di raccontare.
In tal senso, la sua opera seconda dal titolo Fortuna, vincitrice del Grand Prix e dell’Orso di cristallo per il miglior film della sezione “Generation” alla Berlinale 2018, presentata nel concorso della sezione “Panorama Internazionale” della nona edizione del Bif&st, ha nel DNA drammaturgico e stilistico tutta una serie di echi e rimandi più o meno espliciti a quell’opera, ai caratteri fondanti e a colui che l’ha forgiata nell’ormai lontano I silenzi, il bianco & nero, la composizione geometrica delle inquadrature, il rigore formale e allo stesso tempo la grande libertà creativa, la presenza nel cast di Bruno Ganz e soprattutto la capacità di mescolare senza soluzione di continuità il realismo con la magia dell’astrattezza, non possono che rievocare la pellicola del 1987. Il tutto al servizio di una storia che fa del minimalismo e della scarnificazione del racconto il punto di partenza e anche quello di arrivo.
Il titolo rimanda al nome della protagonista, Fortuna appunto, una quattordicenne etiope (interpretata in maniera toccante dalla quasi esordiente Kidist Siyum) che non sa più nulla dei suoi genitori da quando hanno attraversato il Mediterraneo. Assieme ad altri rifugiati, riesce a trovare riparo per l’inverno all’interno di un monastero cattolico in Svizzera. Mentre attende che le autorità decidano del suo destino, i sentimenti di solitudine e nostalgia che la affliggono sono appesantiti da un segreto che non può rivelare nemmeno al capo frate.
Fortuna è un romanzo di formazione nelle cui vene scorrono tematiche universali e di strettissima attualità, a cominciare da quelli dell’immigrazione e dell’accoglienza. La pellicola di Roaux ha una forte impronta autoriale, che potrebbe in qualche modo provocare un allontanamento dello spettatore medio. L’intenzione del cineasta svizzero, però, non è di certo quella di respingerlo, ma di tenerlo a sé attraverso inquadrature magnetiche e scene dense di significati (vedi il meraviglioso monologo di padre Jean al responsabile dei servizi sociali) che spingono alla riflessione, non alla facile morale e all’intrattenimento nel senso commerciale del termine. L’opera nel suo ventre drammaturgico e narrativo custodisce per poi offrire alla platea di turno spunti di riflessione sul bene e il male, sui motivi che portano l’essere umano a fidarsi o no di qualcuno, sulla fede e soprattutto sulla libertà di scelta. Un magma, questo, che trova nella pellicola un viatico e mai un contenitore da colmare, alla pari delle emozioni che il regista tiene volutamente cristallizzate in attesa di sprigionarle in un finale di grande intensità che toccherà profondamente lo spettatore.
Francesco Del Grosso