
Notizie che non lo erano
Possiamo fidarci almeno dei nostri occhi?
“Ora, ammetto che ci siano cose in cui credo senza conoscerle direttamente. Per esempio, non ho mai visto una latimeria con i miei occhi, ma credo che esistano. Credo anche che la Terra giri intorno al Sole, anche se non sembra che lo faccia. Prendo queste cose per vere sulla fiducia per la semplice ragione che riconosco l’autorità delle persone che le dicono.”
Persino un fermo sostenitore della razionalità empirica come sir Jonathan Miller, nel suo splendido documentario Atheism: a rough history of disbelief, ha dovuto cedere a un fatto: che la conoscenza è fondata su un atto di fiducia, se non addirittura di fede. Assimiliamo qualsiasi informazione in base alla stima che nutriamo per il medium che ci educa. Per quanto preparato, colto, smaliziato, dall’indipendenza critica pienamente formata, qualsiasi individuo si appoggia alla fiducia che ripone sulla fonte informativa della quale crede l’autorevolezza e la qualità. Seduto sul divano, tanto l’abulico di junk food news quanto l’utente più intransigente e in apparenza inattaccabile, si affida, mette in mano la propria conoscenza a (quella che egli crede) la competenza e l’onestà di chi lo informa. Sia esso un articolo, un servizio televisivo, un libro, una semplice notizia. Non possiamo verificare di persona, quindi ci immergiamo in ciò che non possiamo conoscere davvero. Come possiamo davvero sapere che ciò che vediamo e leggiamo sia vero?
Ad esempio, la sera di Halloween del 1992 una fetta del popolo televisivo inglese sintonizzato su BBC1 credette a quanto mostrato dal programma in diretta (in realtà registrato settimane prima) Ghostwatch, che documentava la presenza sempre più inquietante di spiriti in una comunissima casa londinese. Credette e si spaventò a tutto quanto visto nella trasmissione, nonostante la crescente improbabilità della “diretta”, perché a presentare fu genialmente chiamato Michael Parkinson, decano della televisione e cultura britannica, uno dei volti più conosciuti del Regno Unito. Se è Parkinson a presentare, ciò che vedo dev’essere per forza autentico. Il telespettatore britannico, quella sera, pose fiducia (fede) in questo, nella figura incontrovertibilmente vera e fonte di verità di Parkinson. Questo senza che Ghostwatch avesse mai tentato di mascherare spudoratamente la sua anima fittizia, dato che fu esplicitamente trasmesso come episodio di Screen One, antologia di fiction televisiva andata in onda dal 1989 al 1993 (lo scrittore di Ghostwatch, Stephen Volk, salì alla ribalta nel 1986 con la sceneggiatura di Gothic di Ken Russell). Ma non bastò.
Così gli uffici BBC furono tempestati di telefonate terrorizzate (leggenda vuole che arrivarono 30000 chiamate in una sola ora) e il giorno seguente diversi giornali accusarono il nome per eccellenza della televisione britannica di aver oltrepassato il limite, soprattutto per la forza di certe scene.
Tre anni dopo, in Nuova Zelanda, non andò molto meglio. L’ispirazione venne col ricordo di un’altra pietra miliare del mockumentary britannico (e non), Alternative 3, andato in onda nel 1977 e oggi più attuale che mai nelle sue congetture distopiche tra ambientalismo e distruzione (la terza alternativa del titolo è popolare Marte in seguito all’imminente fine della vita terrestre). Il cineasta indipendente Costa Botes rimase entusiasta dal programma, in Nuova Zelanda andato in onda il giorno originariamente progettato anche per la televisione britannica (poi diventato il 20 giugno): l’1 aprile. Come per Ghostwatch, una data che sapeva già di palese sberleffo. L’ispirazione venne ancora più forte anni dopo grazie a un corto britannico di 9 minuti girato dall’australiano Bruce Beresford (A spasso con Daisy il suo titolo più famoso) nel 1970 e che divertì Botes: The cinema of Raymond Fark narra la carriera di un maestro statunitense di B movie, autore di pellicole cult come CIA Swamp Virgins. E ovviamente mai esistito.
Così verso il 1990 Botes cominciò a concepire la storia di un regista straordinariamente innovativo, capace di anticipare di anni i grandi geni del cinema delle origini nell’evoluzione del linguaggio cinematografico. Ne parlò al telefono con un giovane regista che aveva conosciuto quasi per caso in un set televisivo, Peter Jackson, il quale rimase incantato dall’idea. Nacque così Colin McKenzie, il più grande regista che non sia mai esistito (chissà se anche nel nome Botes sia rimasto influenzato da Beresford, i cui primi due lungometraggi vedono come protagonista il personaggio di un fumetto satirico degli anni ’60, Barry McKenzie).
Nel 1995, quando Forgotten Silver venne finalmente alla luce, Jackson era ormai pronto per il grande salto: l’anno prima aveva ottenuto grande successo di critica con Creature del cielo e Hollywood lo aspettava, con la produzione di Sospesi nel tempo già in atto. La scissione della sua filmografia tra il periodo neozelandese e quello hollywoodiano era quindi imminente, ma rimaneva prima da incastonare quell’ultima pietra. Concepimento e scrittura della quale appartengono quasi integralmente a Botes, non senza però la costante presenza in itinere di Jackson: “La maggior parte delle idee mi appartiene, ma in tutta onestà posso dire che non c’è un solo momento del film che non sia stato rielaborato, revisionato, o talvolta radicalmente influenzato da Jackson. Venne ad esempio a Peter l’idea chiave che fa da collante al tutto, la città perduta di Colin McKenzie”.
A differenza di quanto fecero gli autori di Ghostwatch tre anni prima, Costa e Jackson mascherarono fino in fondo l’epopea di McKenzie: la storia della scoperta di questa figura che avrebbe portato la Nuova Zelanda incredibilmente in primo piano nella storia del cinema fu inequivocabilmente suggerita come dato di fatto. Tanto che il numero di quella settimana di una delle riviste di punta della cultura neozelandese, il New Zealand Listener, conteneva un articolo proprio sul genio dimenticato della settima arte, non facendo in alcun modo intendere si trattasse del protagonista di un’opera di finzione (è possibile leggere l’articolo originale qui: 1 – 2).
Inoltre – qui sì riprendendo i binari di Ghostwatch, sebbene in modo forse non altrettanto geniale – gli spettatori credettero alla veridicità del documentario per la presenza di personaggi illustri del cinema: Harvey Weinstein era già uno dei produttori giganti statunitensi e fu invitato in quanto aveva acquistato i diritti USA di Creature del cielo; il celeberrimo critico Leonard Maltin fu chiamato grazie a Rick Baker, amico di Jackson; mentre Sam Neill, neozelandese che aveva trovato la fama mondiale due anni prima con Jurassic Park, aveva intervistato Jackson per il suo documentario Cinema of Unease e in pratica ricambiò il favore. Un quarto nome illustre è stato vicino a far parte del progetto: Weinstein propose il nome di Quentin Tarantino, ma Botes rifiutò, commettendo un incredibile errore di valutazione: “Fu prima di Pulp Fiction e dissi: ‘Nessuno sentirà parlare di lui…‘”.
Le reazioni del pubblico fanno parte della leggenda stessa del film. A un iniziale entusiasmo (qui sono riportate alcune lettere spedite da parte di persone che credettero in pieno al film: addirittura una donna fece delle ricerche per risalire alla figlia di Maybelle!), seguirono critiche che portarono anche a lettere molto violente, addirittura minacce di morte. Sebbene non mancarono elogi alla natura mockumentary di Forgotten Silver (come si può leggere qui e in questo articolo del Listener, che un mese dopo aver acceso la miccia cercò di spegnerla), un’intera nazione si sentì offesa, tradita, depauperata di un vanto patriottico la cui vita durò una sera. Costa Botes sostiene addirittura di non essere sicuro che lui e Jackson siano stati ancora perdonati dai propri connazionali. Se non ci si può fidare nemmeno di un documentario in prima serata su TV One (la Rai 1 neozelandese, per porre un parallelo esemplificativo chiaro), di chi o cosa ci si può fidare?
Sono passati 20 anni da quella sera, da quel 29 ottobre 1995 (e non 28, come Wikipedia, IMDB e altre fonti sostengono: le pernacchie di Colin McKenzie non finiscono mai!) e…grande Giove!
Lo stupore, il disgusto, con cui la scorsa settimana Marty e Doc hanno salutato quel 2015 che per 30 anni ci hanno fatto credere diverso, ci toccano e riguardano da molto vicino. Non ci sono auto volanti, sviliamo l’enorme potenziale della tecnologia, la pace in Medioriente è pura utopia e c’è il rischio, con Donald Trump, di far salire sul trono della presidenza più influente del mondo una figura più improbabile di Ronald Reagan, L’ATTORE. Nello sguardo stanco e invecchiato che i due protagonisti di Ritorno al Futuro rivolgono nel selfie in compagnia di Jimmy Kimmel c’è un atto di accusa, che Doc risolve nell’augurio che questo 2015 schifoso sia alternativo e sbagliato, dove “l’evoluzione umana è stata fermata dalla tecnologia superflua e Biff regna supremo”. E che Marty bagna nel sangue, con una domanda che sa di rasoio alla gola: “Se mi è permessa la domanda, che diavolo avete fatto in questi 30 anni?”
Ecco, per puro spirito ludico, attrezzandoci di una DeLorean da tastiera, cosa vedrebbero i Costa Botes e Peter Jackson del 1995 proiettati nel 2015? Che realtà assaporerebbero quei due terroristi dell’informazione in prima serata, quei traditori della patria vestiti da burloni della storia del cinema, quei bugiardi dello spirito arguto?
Vedrebbero loro figlio Colin regnare.
Il titolo dell’articolo si riferisce al saggio di Luca Sofri uscito pochi mesi fa sul fenomeno dell’informazione falsa, parziale, non accertata che dilaga e inquina il flusso giornalistico. Ma che, accuse deontologiche a parte, mette a nudo il nostro approccio alla notizia, all’apprendimento culturale. A una prima lettura si potrebbe pensare che Colin McKenzie dimori nei siti che parodiano i canali di informazione (Onion, ClickHole, da noi principalmente Lercio) attraverso articoli che interpretano la realtà con notizie dichiaratamente false. Ma la questione è più profonda. Perché non sono affatto necessarie ignoranza e ingenuità per perdere totalmente l’orientamento nel marasma informativo a cui siamo esposti quotidianamente. Ci è sempre più difficile approcciarci con sicurezza a un fatto che leggiamo, dargli un’immediata interpretazione corretta. Se è vero che l’arma del dubbio è sempre stata essenziale nel rapporto con l’informazione, oggi è quasi necessità di sopravvivenza. Nel sfogliare ad esempio la nostra timeline Facebook, con le varie notizie in aggiornamento, ci è tremendamente difficile distinguere il fatto dall’interpretazione, la verità dal falso. L’alter ego “reale” di Lercio, Ah ma non è Lercio, mette il sale proprio su questo squarcio: spesso, a una primissima occhiata, confondiamo l’articolo linkato dalla pagina per falso. Anche se è vero, anche se forse effettivamente non lo è. Non importa più la verità, quanto la sua proclamazione, e noi ne siamo complici quotidiani.
Il muro di articoli puramente scritti per click baiting trova la sua forza pressoché invincibile nel fatto stesso di esistere: è la condivisione massiccia a rendere vera una notizia e spesso nessuna smentita, a livello percentuale, può rimediare alla prima insinuazione. È in qualche modo la figlia degenere dell’affermazione di David Altheide secondo cui notizia è ciò che il giornalista decide di pubblicare. Appena trova pubblicazione e diffusione, quella notizia prende vita e diventa verità a prescindere. Un libro di storia dice la verità a prescindere, non andiamo a controllare scrupolosamente la sua attendibilità (Hollywood Babilonia di Kenneth Anger ha trovato qui la sua immensa fortuna).
Colin McKenzie vive in questo virus metastasi, questa piccola macchia deliberatamente infiltrata che rende impazzito il nostro sistema immunitario di valori.
Un altro aspetto di Forgotten Silver troppo spesso taciuto è il suo porre in dubbio il ruolo della memoria. La storia e il tempo non sono affatto giudici infallibili. Soprattutto non sono distributori di giustizia. Non è affatto detto, come spessissimo si sostiene, che a un artista, un’opera, un periodo storico, vengano riconosciuti i meriti negatigli nella propria contemporaneità. Che il tempo porti a galla verità e valori. La storia, com’è noto, è dei vincitori e i vincitori li decidiamo noi. O la semplice ingiustizia. O il puro caso.
La narrazione inventata da Botes e Jackson non è per nulla inverosimile, anzi scopre un nervo molto doloroso: la nostra memoria è viziata da ciò che abbiamo. In altre parole, le nostre convinzioni in storia del cinema (ci limitiamo ad essa, ma il discorso è attuabile per qualsiasi realtà) si affidano a ciò che è sopravvissuto, alla conservazione di opere che possiamo vedere e attraverso esse giudicare l’evoluzione di questa magnifica arte. La quale però, pur essendo giovanissima, un centinaio abbondante di anni, è ferita a livelli inquietanti. Il dato presente nella home page della Film Foundation di Martin Scorsese sostiene che la metà dei film realizzati prima del 1950 e l’80% dei film girati prima del 1929 sono perduti per sempre. La statistica che fornisce la Library of Congress non è meno raggelante: il 70% del cinema statunitense del periodo muto non esiste più.
La storia del cinema delle origini si basa quindi su una memoria collettiva e una conoscenza quasi del tutto incomplete. È così impensabile che un Colin McKenzie sia davvero esistito? Che neghiamo a geni ormai irrimediabilmente senza nome il loro posto in una storia che ingiustamente non li vede protagonisti? E che diamo meriti “evolutivi” ad artisti sì straordinari ma che magari vedrebbero la loro importanza ridimensionata?
Come Martin Scorsese afferma nel documentario Rivoluzione digitale, “è un pericolo che ha a che fare con la continuazione della nostra cultura. A che cosa guardi quando devi tornare alle origini? Dove prendi la linfa culturale, artistica e intellettuale? Dove la prendi?”
Proprio il film del 2012 di Christopher Kenneally ci mette in guardia da un pericolo che forse inconsciamente sottovalutiamo: viviamo in un’epoca in cui restauri, blu ray, alta definizione, catalogazione, riscoperte, classici COME MAI LI AVETE VISTI PRIMA riproposti in sala ci fanno credere che la conservazione del cinema sia un dato di fatto acquisito, una conquista accertata. Ma non è affatto così.
Proponiamo in successione dei passaggi del documentario che palesano come l’affidabilità storica ed archivistica sia lontanissima dall’essere tutt’oggi un cuscino di sicurezza.
“Dall’inizio degli anni ’50, dall’avvento della televisione commerciale, ci sono stati 80 formati di video e la maggior parte di loro non può essere più vista, perché non esistono più i mezzi per farlo” (Michael Goi, direttore della fotografia e presidente della American Society of Cinematographers)
“Ho formati nastro d’archivio per i video musicali e per gli spot pubblicitari che ho fatto negli anni ’80 e non c’è nessun mezzo per vederli” (David Fincher)
“Non c’è nessun formato d’archivio valido nel mondo digitale e finora nessuno si è preoccupato di risolvere questo problema” (Christopher Nolan)
“Nessuno prende sul serio l’archiviazione. ‘Oh, lo salverò sull’hard drive’ e mettono l’hard drive sullo scaffale. L’anno dopo lo carichi e fa tictic tic, perché s’incollano. Se non li avvii continuamente s’incollano, se li avvii di continuo si consumano e fanno tic…tic…TIC” (Dion Beebe, direttore della fotografia tra gli altri di Collateral e Memorie di una geisha)
“L’unico modo con cui puoi essere sicuro che un film o qualunque altra cosa filmata sia ancora in circolazione tra 60 od 80 anni, paradossalmente e ironicamente è la celluloide” (Martin Scorsese)
Doc e Marty hanno quindi ragione: siamo incapaci di usare la tecnologia in modo corretto, “evolutivo”. Quello dell’”argento dimenticato” (a proposito: l’argento è quello della felce, simbolo della Nuova Zelanda, ma fa anche riferimento al nitrato d’argento, elemento fondamentale nella pellicola) è un rischio che non smettiamo di correre, con tutte le nefaste conseguenze.
La storia (la nostra realtà) è insomma nido di falsità e ostacoli costantemente alimentato. Chi vi assicura, ad esempio, che tutti gli aneddoti, le citazioni e i dati riportati in questo articolo siano fedeli alla realtà? Dove vive l’eredità di Colin McKenzie, il confine tra fatto e interpretazione mitizzata (quando non invenzione)? Credereste alla notizia che mezzo mondo da anni conosce senza saperlo gli attori che interpretarono Colin e Maybelle grazie al Signore degli Anelli?
CONVERSAZIONE CON COSTA BOTES, CO-REGISTA DI FORGOTTEN SILVER
Abbiamo contattato via email Costa Botes, il creatore di Forgotten Silver meno famoso ma come abbiamo visto non meno importante, per porgli alcune domande sull’opera in occasione del ventennale. Ringraziamo il signor Botes per la gentile e costante disponibilità che ha offerto.
D: Come conobbe Peter Jackson e come fu concepito e prodotto Forgotten Silver? Come nacque l’idea?
Costa Botes: Ho incontrato Peter per la prima volta nel 1986. Stavo lavorando come assistente di produzione in uno spettacolo televisivo. Peter venne un giorno per un piccolo effetto pirotecnico. Cominciammo a parlare di cinema e mi disse che stava lavorando a un film horror, che lo stava girando ogni fine settimana con alcuni amici. Mi suonò assurdo, ma un paio di settimane dopo vidi il girato che aveva accumulato e non mi sembrò più così assurdo. Rimasi colpito da quello che aveva fatto.
Sono una persona piuttosto pragmatica. Ma pensare in termini di ciò che è possibile fare può essere limitante. A volte si deve pensare a cose impossibili. Lo spirito ambizioso di Peter fu contagioso. Era (ed è tuttora) guidato dall’immaginazione. Lo trovai d’ispirazione, e fui ispirato a pensare talvolta a idee folli.
Una di quelle idee era Forgotten Silver. Il concetto base era molto semplice, raccontare una storia epica sotto forma di documentario. Capii immediatamente che si trattava di un’idea potente, ma realizzarla sembrava impossibile. Un giorno ne parlai a Peter e l’idea gli piacque molto. Si offrì di collaborare. Le risorse creative e logistiche di Peter furono la chiave della realizzazione del progetto.
D: Il film è pieno di comicità dissacrante. C’è un costante senso del ridicolo nei confronti dell’evoluzione della storia e del cinema: le 2000 uova rubate, il primo volo che fallì a causa della videocamera, il primo film sonoro distribuito in cinese e senza sottotitoli, ecc. Si può dire che il film è più una satira che un omaggio all’evoluzione del cinema? Che schernite la storia vista dai critici?
Costa Botes: Il film è senza dubbio dissacrante, ma non direi che l’intento fosse quello di farne una satira sull’evoluzione del cinema. Ciò che volevo dire era che la vera storia del cinema era sicura, e che in nessun modo il nostro trattamento umoristico poteva essere seriamente visto come una derisione del cinema. Doveva essere divertente.
D: Ho sempre pensato che l’autoritario padre di Colin sia una metafora per il cinema neozelandese. È così?
Costa Botes: No, ma è un simbolo per un certo tipo di conformità mentalmente chiusa. Il padre incarna la mentalità materialistica, priva di immaginazione, zotica che opprime gli artisti ovunque, non solo in Nuova Zelanda.
D: Forgotten Silver non è certo l’unico film che prova a emulare il cinema dei pionieri, ma è uno dei pochi che ci riesce. I film di Colin rimangono perfettamente credibili. Come avete fatto?
Costa Botes: Guardammo un sacco di film muti. Hanno alcuni elementi e caratteristiche in comune. Il più ovvio è quello dei segni di danneggiamento: graffi, polvere, scolorimento, ecc. Questi possono essere riprodotti in vari modi. Graffiammo la pellicola, la immergemmo in acqua e polvere, vi facemmo gocciolare sopra dell’acido. Sperimentammo di tutto.
C’è poi l’effetto di esposizione variabile causata dal girare la manovella delle vecchie videocamere. L’uso delle didascalie davanti alla lente. Come la videocamera viene usata, i movimenti, le inquadrature. È stato fatto ogni tentativo per riprodurre gli aspetti di ciò che vediamo nei veri vecchi film.
Direi poi che uno degli aspetti davvero inosservati in Forgotten Silver è la qualità della recitazione. Gran parte del cast era composto da attori non professionisti, eppure tutti entrarono nello spirito del film e risultarono estremamente convincenti.
D: Colin anticipò buona parte delle più grandi innovazioni del primo cinema, ma tutte fallirono nel trovare riconoscimento commerciale e artistico. Ottenne successo solo con gli sketch volgari di Stan the Man. È come se lei e Jackson metteste in guardia circa la realtà che ogni artista deve affrontare.
Costa Botes: Non penso, non proprio. Sì, a volte la volgarità vende, ma non penso che il successo sia indicato dal “tutto esaurito”. Al contrario. Solo gli artisti che rimangono davvero fedeli a se stessi possono ottenere un successo a lunga gittata.
La tragedia di Colin McKenzie consiste nell’essere un uomo che anticipa i tempi, in un posto troppo piccolo per supportare la sua gigantesca visione. Forse Peter stava trasportando le sue stesse paure in questa narrazione? Probabilmente no. Penso che Peter non abbia mai avuto paura di niente. Per lui fu più una percezione che sapeva di stare per fare ciò che il nostro personaggio di fantasia non era riuscito a fare.
Dal mio punto di vista, comunque, potrei sentirmi molto vicino a un cineasta che lotta nel provare a fare tutto ciò che può per realizzare un grande lavoro ma che, con grande frustrazione, fallisce ogni volta nel lasciare il segno.
Continuo a sentirmi frustrato e limitato dalla “piccolezza” del mio Paese.
D: Quando Forgotten Silver andò in onda, fu preso sul serio. Potrebbe ricordare le reazioni di quella sera?
Costa Botes: Piazzammo qualche news fittizia che suggerisse l’idea che il film fosse un vero documentario. Non mi sarei mai sognato che la gente prendesse davvero tutto sul serio, dopo i primi 15 minuti. Ma fu così. Il mio telefono cominciò a squillare immediatamente dopo la messa in onda. La gente mi chiamò per congratularsi per la nostra favolosa scoperta storica. Il mio cuore si spezzò quando capii che la gente era stata davvero ingannata.
Pensai che ci sarebbero state reazioni negative, ed ebbi ragione. Tutti i lagnosi e lamentosi sbucarono fuori. Si sentirono presi in giro, suppongo, e pensarono che la televisione nazionale li deridesse personalmente. Alcuni espressero la sensazione che non si sarebbero mai più fidati della loro tv. Il furore durò un paio di settimane, nei giornali e nelle radio.
Non fu divertente. Non mi fece piacere essere l’uomo che ingannò una nazione. Piuttosto, avevo involontariamente smascherato una nazione di creduloni. Il dibattito fu immaturo a un livello deprimente. E dominò tutta la discussione del film.
D: Dopo 20 anni lei è un apprezzatissimo cineasta indipendente e Peter Jackson uno dei registi più iconici di Hollywood. Qual è ora il suo rapporto con il film e con lui?
Costa Botes: Non so se sono poi così apprezzato, in realtà. Ma di certo sono indipendente, amo realizzare film, e la capacità di continuare a farli con assoluta libertà creativa è qualcosa a cui tengo. Sono molto orgoglioso di Forgotten Silver, rimane una delle mie esperienze creative più felici. Fu davvero dura a volte, ma quando si risolvono problemi così complicati, tutto diventa ancora più bello.
Ho iniziato a perdere di vista Peter subito dopo l’ultimazione del film. Aveva già preso contatti collaborativi con Hollywood con Sospesi nel Tempo. Sia le nostre vite che le nostre ambizioni si allontanarono considerevolmente (i due si ritrovarono comunque per la Trilogia dell’Anello, con Costa ingaggiato per dirigere i documentari del making of: parla dell’esperienza sul suo sito ufficiale, ndr).
Non direi di essere un fan di tutti i film che Peter fa, ma lo ammiro molto come cineasta. A livello tecnico è probabilmente il regista più capace del pianeta, al livello di Spielberg e Cameron. Sono stato fortunato ad avere l’opportunità di lavorare a stretto contatto con lui, e ho fatto tesoro dell’esperienza il più possibile.
D: Forgotten Silver è ora un cult movie non solo per le sue eccezionali qualità artistiche, ma anche per la sua fantasmagorica distribuzione homevideo. Su eBay si trovano alcuni vecchi dvd a prezzi folli, un blu ray tedesco è stato pubblicato tre anni fa e una versione dvd è disponibile sul suo sito, ma ancora non c’è una versione definitiva. Lei ci sta provando, ma ha detto che uno dei principali ostacoli è la mancanza di tempo sua e di Jackson per registrare un commento insieme. Qual è la situazione attuale? Possiamo sperare per un blu ray “directors approved” di Forgotten Silver?
Costa Botes: Quei vecchi dvd proposti a prezzi astronomici non sono un buon affare. Appartengono a un edizione del 1999, con un master video persino antecedente. La qualità è terribile.
Nel 2009 circa rimasterizzammo il film, preparando un video HD dai negativi originali. Lo scopo era archivistico, ma la mia speranza all’epoca era che questo avrebbe portato a una edizione dvd definitiva.
Nessuno si fece avanti, quindi feci per conto mio. Avevo tutti gli ingredienti: il film e alcuni contenuti extra che avevo creato per il dvd originale.
Ma anche così tutto rimase bloccato. Ho provato per tre anni ad avere Peter per registrare un commento. Non è mai successo. È un uomo impegnato! Si arriva a un punto in cui ci si stanca di provare, quindi ho realizzato un dvd senza alcun commento.
Un’edizione blu ray non è tecnicamente difficile ora, ma è quasi inutile dato che è chiaro come i dvd stiano perdendo lo status di opzione preferita per guardare film.
Ho paura che lo stato precario della distribuzione cinematografica nell’era della pirateria internet e del libero caricamento Youtube abbia praticamente ucciso ogni speranza di un distributore commerciale interessato a un’edizione blu ray di Forgotten Silver.
Ho fatto il possibile per assicurarmi che la gente possa vedere il film legalmente. Nessuno può dire che non sia disponibile a un prezzo ragionevole e accessibile su ogni supporto.
Il dvd del film è acquistabile sul mio sito
http://costabotes.co.nz/shop/forgotten-silver/
Video on demand e download del film sono disponibili su Vimeo
https://vimeo.com/ondemand/forgottensilver
Riccardo Nuziale