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Fire Squad – Incubo di fuoco

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VOTO: 7

Vanno dove li porta il fuoco

Fire Squad – Incubo di fuoco è basato sulla vera storia dei Granite Mountain Hotshots, una squadra locale di pompieri che con speranza, determinazione, sacrificio e voglia di proteggere famiglie, comunità e il paese, diventò una delle più importanti unità d’élite della nazione. Mentre molti di noi cercano di sfuggire al pericolo, loro lo fronteggiarono, proteggendo le nostre vite, le nostre case e le cose a noi più care, rivelando un incredibile spirito di corpo che venne fuori durante un fatale incendio.
A portare sullo schermo le loro gesta è stato chiamato Joseph Kosinski, che da qui a qualche mese vedremo nuovamente dietro la macchina da presa con l’atteso sequel di Top Gun. A distanza di cinque anni dai fatti, per la precisione dal quel fatidico 30 giugno del 2013, la vicenda e i suoi protagonisti rivivono in una pellicola che è a tutti gli effetti un omaggio sentito e doveroso a un gruppo di eroi e alle loro famiglie. Insomma, il classico film tributo, ma che fortunatamente, rispetto a tante altre operazioni analoghe a stelle e strisce (vedi ad esempio World Trade Center di Oliver Stone), riesce a non scivolare nelle sabbie mobili dell’irritante melassa patriottica e celebrativa alla quale la produzione a stelle e strisce ci ha abituato negli ultimi anni, in particolare dopo i tragici accadimenti dell’11 settembre. Per evitare ciò, il regista si è affidato alla scrittura di Ken Nolan e Eric Warren Singer, che a loro volta si sono ispirati all’articolo di Sean Flynn apparso sulle pagine di GQ dal titolo “No Exit”. Ed è probabilmente quest’origine giornalistica ad aver donato all’opera in questione, nelle sale nostrane a partire dal 22 agosto con 01 Distribution, la misura e i mezzi necessari a raggiungere un dosaggio piuttosto elevato di verità e di realismo. Il tutto traspare dalla messa in scena e dalle dinamiche del racconto che restano entrambe sulla linea sottile, quella che identifica la soglia della credibilità e che il più delle volte, specialmente in questa tipologia di operazioni, viene sistematicamente oltrepassata.
Il pericolo che ciò si verificasse anche in Fire Squad era piuttosto elevato, visto il DNA drammaturgico e la natura di un progetto che poteva andarsi tranquillamente ad accomodare e allineare con altri che hanno affrontato l’argomento in maniera più o meno realistica: da Fuoco assassino a Out of Inferno, passando per Squadra 49. Anche nel film del cineasta statunitense la componente romanzata spinge il plot verso il filone incendiario, ma per fortuna solo in parte e senza calcare troppo la mano sulla componente spettacolare. Qui, un Kosinski inedito con i piedi saldamente piantati sul pianeta Terra e lontano dalla fantascienza dei suoi lavori precedenti (Tron: Legacy e Oblivion), mostra le gesta sul campo dei venti protagonisti, saltando cronologicamente da un rogo a un altro da una costa all’altra degli States, ma al contempo ritaglia moltissimo spazio anche al controcampo emotivo, al background e alla caratterizzazione dei personaggi. Un equilibrio, questo, dettato dalla gestione sia in fase di scrittura che di trasposizione di un vero e proprio controcampo tra azione e vissuto. Lo stesso equilibrio che ha decretato il successo di Fire Chasers di Molly Maylock, serie di quattro documentari targata Netflix e prodotta da Leonardo DiCaprio che tratta le storie dei pompieri impegnati nei terribili incendi che hanno colpito la California nel 2016. Un’opera quella firmata dalla collega decisamente ecologista, che racconta come i pompieri, giovani e veterani, affrontano il fuoco, terribile e tragicamente affascinante, e eroicamente proteggono le case e salvano le vite minacciate dagli incendi.
In Fire Squad le intenzioni sono le stesse, a cambiare semmai è il modus operandi, con Kosinski che punta sul realismo, passando attraverso il linguaggio della finzione e non attraverso l’immediatezza del documentario. Ciononostante, sceglie una regia più classica e meno presente rispetto a quella messa in vetrina in passato, dove non vengono meno di tanto in tanto dei guizzi visivi. Il neo semmai sta nell’eccessiva durata, con una timeline inspiegabilmente dilatata ben oltre le due ore. Una maggiore capacità di sintesi avrebbe sicuramente giovato a un film nel quale si avvertono almeno una ventina di minuti di troppo, che corrispondono esattamente al numero di scene fotocopia presenti sulla timeline e che mostrano situazioni analoghe che potevano tranquillamente essere sacrificate o quantomeno asciugate.

Francesco Del Grosso

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