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Fear

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VOTO: 8

Brutta bestia la paura

Da mesi, oramai anni, la tragedia dei profughi sulla rotta balcanica entra nelle nostre case e nelle nostre menti attraverso le immagini di telegiornali, giornali e programmi tv. È una quotidianità tragica ma per noi lontana e difficile da percepire. Discorso diverso per le popolazioni degli Stati balcanici. Questo flusso migratorio di massa è entrato a far parte delle loro vite in maniera reale.
Il regista bulgaro Ivaylo Hristov, in concorso al 32° Trieste Film Festival con il lungometraggio Fear (titolo originale Strah), adatta il suo stile particolare ed eccentrico ad una storia di immigrazione, xenofobia e solidarietà umana, nella quale la protagonista Svetla (Victoria Yancheva) si trova coinvolta in prima persona nel dramma dei migranti e si vede costretta a prendere una posizione.
I primi elementi a colpire l’occhio sono l’uso del bianco e nero nelle riprese e gli ambienti vuoti e spogli con edifici non costruiti e mezzo diroccati. Tutta la prima sequenza, nella quale non una parola viene proferita ci induce a pensare che il silenzio sia la condizione naturale del mondo filmato in pellicola e le parole una fastidiosa intrusione. L’assenza ci colore aumenta il senso di stilizzazione dell’ambiente e dei personaggi rappresentati. Non stiamo assistendo ad una storia realistica, ma ad una narrazione nella quale tipi e situazioni si riducono ai loro tratti essenziali per poter passare dal particolare della situazione di un piccolo paese nella provincia bulgara alle prese con il dramma dell’immigrazione al generale di offrire una riflessione circa i rapporti tra individuo e comunità. Questa particolare scelta stilistica unita ad una forte vena di sarcasmo nella messa in scena della xenofobia di popolazione e media porta alla sensazione di assistere ad una commedia dell’assurdo, nella quale razionalità ed umanità sono state bandite per paura. La paura è proprio uno dei centri narrativi del film. Una paura che porta alla rabbia che porta all’odio. Gli abitanti del paese non capiscono e questo li spaventa, rendendoli aggressivi e pronti a sfogare questo grumo di negatività sul più facile bersaglio, in questo caso i migranti e chi non li avversi, come la protagonista.
Il buio dell’anima genera mostri. Ogni essere umano ha diritto alla felicità ed a lottare per essa, questo, ci pare di capire, è il pensiero del regista, il cui vero intento non ci sembra, in definitiva, quello di costruire un film di denuncia sociale circa la nuova tragica contemporaneità della rotta balcanica e delle emigrazioni di massa; quanto piuttosto di girare un film sulla paura, o sulle paure, che albergano nel cuore di ognuno e che ci rendono meschini e peggiori di quanto non potremmo essere. Paure che ci bloccano e che ci portano a commettere errori, a subire perdite, ad essere infelici e quando invece ci ribelliamo ad esse, scegliamo di smettere di avere paura ed iniziamo a difendere ciò in cui crediamo, solo allora siamo felici e possiamo restituire colore al mondo, come il sorprendente finale suggerisce attraverso la poesia delle sue immagini.

Luca Bovio

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