Legami di sangue
Dopo il coevo The Father, approda nelle sale italiane un altro lungometraggio ad affrontare il delicato tema della malattia in ambito terza età, osservata attraverso un complesso rapporto genitoriale. Ma se nel film appena menzionato il punto di vista privilegiato era quello, distorto dal male, dell’anziano – interpretato da un meraviglioso Anthony Hopkins da Oscar – nel caso di Falling – Storia di un padre è la relazione tra padre e figlio ad essere messa al centro della narrazione. Appare dunque abbastanza scontato come, da tali premesse, scaturisca un’opera dall’impianto piuttosto classico, focalizzata soprattutto sulla bontà della recitazione di un cast assai in parte. Esattamente ciò che ci si sarebbe aspettato dall’esordio alla regia dell’attore Viggo Mortensen, ovviamente bravissimo nella direzione di attrici e attori del film ma anche, a confermare doti di sensibilità affatto comuni, molto intelligente nel destrutturare la propria immagine di attore virile, capace di toccare il proprio apice nell’interpretazione di Aragorn nella saga de Il signore degli anelli passando per lungometraggi quali ad esempio lo straordinario Riflessi sulla pelle (1990), Soldato Jane (1997) o lo stratificato La promessa dell’assassino (2007).
Falling – il titolo sta ad indicare la parabola discendente, in tutti i sensi immaginabili, imboccata dalla vita di Willis, l’anziano patriarca benissimo interpretato da Lance Henriksen – in fondo è un melodramma mascherato, raggelato nella sua struttura a flashback tesa ad illustrare il passato per tentare di spiegare il presente. Un presente che vede il vecchio Willis, affetto da demenza senile e da un probabile cancro al colon, amorevolmente assistito dal figlio John (impersonato dallo stesso Viggo Mortensen), omosessuale di mezza età sposato con Eric, assieme al quale hanno felicemente adottato una bambina. Due uomini, padre e figlio, dalle caratteristiche totalmente opposte: il primo rude conservatore, donnaiolo, sessista, omofobo, tabagista e quant’altro ancora; il secondo di indole mite, non incline a vizi, amorevole padre di famiglia nonché punto di riferimento per i nipoti, i figli avuti dalla sorella. Situazione che ci conduce al punto focale di un’opera molto controllata ed assai poco propensa al rischio formale, come sovente capita agli esordienti: a quali limiti può spingersi l’affetto “dovuto” dettato dalla consanguineità? Domanda alla quale Mortensen – anche sceneggiatore, con qualche sospetto di verità biografiche nella descrizione della propria relazione con il padre – evita saggiamente di rispondere, demandando ad un finale pregno di ambiguità e chiavi di lettura una possibile ricostruzione da parte dello spettatore. Con quest’ultimo magari sin troppo spaesato da un eccesso di salti temporali che finiscono con il fornire al film un aura sin troppo didascalica che certamente l’impegno, visibile, di Mortensen non meriterebbe. In quanto trattasi, in tutta evidenza, di un’opera partorita a seguito di una forte esigenza personale.
Da segnalare infine anche un sorprendente cameo di David Cronenberg, nei panni del medico che diagnostica tempestivamente il tumore a Willis. Un ulteriore testimonianza di un rapporto, quello tra Mortensen ed il maestro canadese, capace di andare ben oltre un riuscito sodalizio artistico in grado di partorire quintessenziali opere come A History of Violence (2005), il già citato La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007) e A Dangerous Method (2011). Tutti lungometraggi capaci di lasciare una traccia indelebile non solamente nella filmografia del cineasta di Toronto. Dal quale Mortensen, basandoci sulla visione di Falling, pare aver assimilato ben più di qualche stilema, anche ad una lettura intrinseca del film. Da verificare con la massima fiducia alle prossime prove registiche.
Daniele De Angelis