Per conto di Dio
C’era una volta Mosè, la guida ebraica per eccellenza, colui che condusse il proprio popolo verso la Terra Promessa dietro ispirazione divina. E c’era una volta Ridley Scott, il cineasta che ad inizio carriera ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del Cinema, collezionando in sequenza tre opere in assoluto eccezionali e seminali come I duellanti (1977), Alien (1979) e Blade Runner (1982). Forse era davvero destino che due personalità di così evidente peso si incontrassero per dar vita ad un film che è impossibile definire semplice blockbuster ma al quale calza a pennello la definizione antica di kolossal, dalla prima all’ultima inquadratura. Tutto bene, allora? Purtroppo non del tutto. Perché il cinema del venerando Scott, tranne qualche isolato sprazzo di originalità, si è nel frattempo adagiato sugli schemi risaputi dello spettacolo a tutti i costi: e questo Exodus – Dei e Re non costituisce nemmeno la classica eccezione che conferma la regola.
Lo schema è quello già ampiamente sperimentato con Il gladiatore (2000), film che all’epoca fruttò una messe di Oscar soprattutto per il più scontato dei motivi “ideologici”: la Hollywood narcisista ama e si lusinga nel riscrivere a proprio piacimento la Storia, quella che spesso e volentieri travalica nella leggenda. Ecco allora Mosè – interpretato dal comunque sempre affidabile Christian Bale – assurgere a ruolo quasi supereroistico di gran combattente all’inizio nonché istintivo e baldanzoso tramite di Dio nella seconda parte. Quasi nessuna traccia dell’umana saggezza raccontata nei lontani anni di lezioni a catechismo; del resto se lo stesso Dio viene illustrato come furente e vendicativo nei confronti della tirannide egiziana non si vede perché Mosè non debba essere ritratto come una sorta di superuomo di nietzschiana memoria. Per il resto aderenza pressoché completa all’iconografia tradizionale, con il giovane Mosè dapprincipio egiziano d’adozione per poi recuperare il sangue ebraico che scorre nelle sue vene, non prima di aver salvato la pelle al futuro faraone Ramses – soggetto dalla hybris, diciamo così, piuttosto pronunciata – in un twist che non può non far tornare alla mente il rapporto prima di fratellanza e poi di fiera ostilità tra Ben Hur e Messala nella pellicola diretta nel 1959 da William Wyler. Affiorano però i primi difetti di un film che nella prima metà, descrivendo battaglie e soprattutto dinamiche di corte egizia, possiede uno sviluppo lento da soap opera distratta. La visione del tutto manichea di un gruppo di aguzzini schiavi del loro eccessivo potere da esercitare sugli indifesi ebrei non favorisce l’insorgere di alcun sottotesto socio-politico, tantomeno un riverbero con la situazione del presente. Eppure sarebbe stato discretamente facile “giocare” con i paradossi della Storia, quella che ha visto nei secoli il popolo ebraico brutalmente perseguitato e infine passare dall’altra parte della barricata. Ma forse era pretendere troppo.
Con l’arrivo delle dieci piaghe – ma con i coccodrilli giganti come la mettiamo con la verosimiglianza biblica? – e l’ausilio della computer graphic l’azione si rianima ma il traguardo dell’epica resta lontano. Mosè non suscita alcun empatia, così come un bambino nei panni dell’incarnazione divina provoca solamente avversione. Molto più moderna, tanto per rimanere ad un’altra figura citata nella Bibbia e “dialogante” con l’Altissimo, era stata la trasposizione di Noè nel Noah di Darren Aronofsky, descritto al pari di un fondamentalista ante litteram. Il Mosè di Ridley Scott resta invece monodimensionale esattamente come il Russell Crowe – attore evidentemente ricorrente – del già citato Il gladiatore. Ciò non toglie che alcune sequenze – tipo l’attraversamento del Mar Rosso – tolgano il fiato per bellezza registica, anche prescindendo da una stereoscopia in questo caso non necessaria. Del resto che Scott conosca a menadito il modo di creare spettacolo solo attraverso l’uso della macchina da presa – altro esempio le continue, magnifiche, riprese aeree a suggerire lo sguardo divino in Exodus – è cosa nota. Però l’occhio spettatoriale è mutato, non si accontenta solo della forma, del semplice incanto di un’immagine ormai inflazionata nella sua asettica perfezione virtuale. Tanto per rimanere in tema, dopo la visione di Exodus – Dei e Re, aumenta il desiderio di rivedere I dieci comandamenti nella titanica versione di Cecil B. DeMille datata 1956, epoca in cui il cinema era ancora puro stupore emotivo e non sterile messa in mostra di elaborati effetti speciali.
Fortunatamente, almeno nel cinema, la macchina del tempo può essere azionata in qualsiasi momento…
Daniele De Angelis