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Eva Braun

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VOTO: 8

Il senso della messa (in scena)

Fortunatamente, nel sottobosco delle produzioni indipendenti italiane “geneticamente” impossibilitate a vedere la luce di una sala cinematografica, continuano ad esistere opere in grado di travalicare gli endemici problemi di budget e distribuzione poiché in possesso di un’idea forte, capaci perciò di veicolare una visione del tutto particolare sullo stato delle cose. Eva Braun, diretto da quel Simone Scafidi già distintosi in passato con gli interessanti lungometraggi Gli arcangeli (2007) e La festa (2013), è esattamente uno di questi.
Sin dalle prime battute Eva Braun si presenta allo spettatore con tutta la (necessaria) irruenza dell’apologo. Un racconto surreale e frammentato, ma al contempo credibilissimo e compatto ad un secondo sguardo, sul legame spontaneo che viene a crearsi tra illusorio potere e dimostrazione pratica dello stesso. Da esplicare attraverso un solo possibile e conosciuto modo: il sesso. Sorta di rituale da consumare nel corso dei secoli, negli ambiti più disparati. La trama, quasi un pretesto, vede un uomo facoltoso, tale Pier (interpretato da un inquietante ed efficace Andrea Riva de Onestis, nemmeno troppo vagamente somigliante alla star danese Mads Mikkelsen), assistito dall’amante e organizzatrice Romy (la brava e sensuale Susanna Giaroli), radunare piccoli gruppi eterogenei di persone per imbastire situazioni a tema sessuale via via sempre più spinte atte a soddisfare le proprie, perverse, fantasie. Il parallelismo con certe situazioni tipicamente italiote (Silvio Berlusconi e il bunga bunga) potrà anche aver fornito lo spunto di partenza per la realizzazione del film ma di certo non è la ricerca di un tenore scandalistico a rappresentare l’obiettivo principale di Eva Braun. Il quale lungometraggio, al contrario, scava ben al di là dell’apparenza per arricchirsi di acuti significati politici e sociali. Il conflitto di classe di matrice pasoliniana è saggiamente solo suggerito, vista anche l’estrema banalità ideologica della società in cui viviamo, talmente massificata da risultare priva di qualsiasi tipo di slancio. Mentre è proprio il discorso squisitamente sociale a lasciare il segno in Eva Braun, versante in cui Scafidi – anche sceneggiatore, come sempre nei suoi lavori – riesce a intarsiare di cesello sulla discrasia estrema e intollerabile tra la vita di tutti i giorni ed il microcosmo di finzione che si viene a creare nell’esaudimento dei desideri di Pier. I personaggi che compongono il teatrino sessuale dell’uomo, infatti, mentre girano tutti a vuoto, senza risolvere nulla, nelle rispettive problematiche della quotidianità, sembrano per un effimero istante trovare il senso della propria esistenza proprio nel “recitare” a pagamento in quelle situazioni umilianti che Pier propone loro. E la metafora di una società allo sbando, dove la prostituzione fisica e, più spesso, morale può davvero apparire come l’unica strada praticabile verso la realizzazione personale funziona davvero benissimo, lasciando a chi guarda un retrogusto così amaro da rifletterci sopra per diverso tempo.
Nobilitato da una regia essenziale ma attentissima a scavare nei sentimenti primari dei vari personaggi, culminante nella bellissima sequenza onirica dell’orgia tra Pier e le sue “vittime”, Eva Braun – il titolo “dedicato” alla compagna di Hitler non è ovviamente casuale – ci racconta anche del maschio e della femmina, di chi si illude di detenere scettri invisibili e di chi invece, più o meno sottotraccia, muove sempre le fila di ogni discorso. E l’asperrimo, ironico e beffardo finale ci fa anche comprendere ancor meglio come il film di Simone Scafidi riesca ad essere anche spietata istantanea del reale, un’opera senza effettiva fine che potrebbe essere girata nuovamente ogni giorno con altri particolari sul nostro miserevole paese, teso ed imperterrito nello scavare, centimetro dopo centimetro, verso un fondo del quale non si intravede il termine.
Se dunque il confronto (implicito, per situazioni narrative e tematiche) con l’inarrivabile Salò di Pier Paolo Pasolini risulta improponibile sul crinale artistico, non è però affatto blasfemo dal punto di vista contenutistico, per merito delle istanze di verità che il film porta coraggiosamente avanti con chiarezza quasi sorprendente. Anche solo per questo motivo Eva Braun meriterebbe ampiamente il tempo da destinargli, in primis per la sua ricerca e in secondo luogo per la visione. Per recuperare un’opera “scomoda” poiché capace di riflettere, al pari di uno specchio deformante, qualcosa che è sempre troppo semplice far finta di non vedere.
Benvenuti in Italia, se non ve ne siete già accorti…

Daniele De Angelis

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