Uno zio molto pericoloso
Se ne erano perse completamente le tracce dopo l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2014, dove si era aggiudicato il Premio TAODUE Camera d’Oro alla migliore opera prima, ma come accade piuttosto spesso in Italia, alcuni di quei film che sembravano oramai destinati a rimanere imprigionati per sempre nel limbo della diabolica distribuzione tricolore finiscono prima o poi, anche a distanza di anni, a trovare finalmente la via d’uscita. Ed è quanto accaduto a Escobar: Paradise Lost di Andrea Di Stefano, ripescato dalle sabbie mobili dalla Good Films per essere portato nelle sale nostrane a partire dal 25 agosto. Insomma, meglio tardi che mai, anche se la collocazione scelta nel cartellone non aiuta di certo la causa, da una parte per la vicinanza al taglio del nastro di partenza della 73esima edizione della Mostra di Venezia che già da settimane sta catalizzando l’attenzione dei media e degli addetti ai lavori, dall’altra per la scarsa attrattiva che la sala cinematografica ha sugli abituali spettatori durante gli ultimi vagiti della stagione balneare. Eppure i motivi di interesse potenzialmente utili a garantire un pubblico alla pellicola d’esordio dell’attore e regista capitolino non mancano, a cominciare dalla presenza nel cast di un nome di richiamo come quello di Benicio del Toro e di una promessa del grande schermo quale il Josh Hutcherson di Hunger Games. Ma evidentemente anche le suddette presenze nei credits non sono state sufficienti a garantire all’opera un’altra collocazione, magari nel catalogo autunno-inverno.
Sta di fatto che Escobar: Paradise Lost e colui che lo ha realizzato si dovranno accontentare di quello che passa il convento, ossia una distribuzione di ripiego in un periodo non particolarmente felice dal punto di vista statistico e degli incassi, almeno per quanto riguarda l’Italia. Diciamo questo, perché a conti fatti il film scritto e diretto da Di Stefano è ben al di sopra della media nostrana, ma soprattutto meritevole di attenzioni per l’ambizione che caratterizza un progetto dal chiaro respiro internazionale e per il coraggio dimostrato nell’averlo voluto affrontare, a maggior ragione se come in questo caso alla prima esperienza dietro la macchina da presa. Il regista dimostra di avere le carte in regola per fare strada e la confezione tecnica ed estetica dell’opera ne è la riprova. Sicuro nelle decisioni e con mano ferma, Di Stefano sfoggia una regia lineare e senza sbavature, capace di sussulti degni di nota, ma nel complesso al completo servizio della storia e in primis delle performance davanti alla cinepresa, che resta uno degli ingredienti migliori del menù. Il merito è probabilmente dei suoi trascorsi da attore su set importanti come Prima che sia notte di Julian Schnabel o Non ti voltare di Marina De Van. Ciò ha consentito a del Toro di firmare l’ennesima prova maiuscola della sua gigantesca carriera, questa volta nei panni scomodi del più grande e spietato narcotrafficante di sempre, ossia Pablo Emilio Escobar Gaviria. Il celebre attore portoricano si cala alla perfezione nelle vesti del temuto criminale colombiano, in quello che non va per nessuna cosa al mondo scambiato per un biopic a lui dedicato. Prima di tutto perché non lo è e non ha mai avuto la presunzione di esserlo.
Escobar: Paradise Lost è piuttosto una parantesi che affronta una parte della sua esistenza, basata su studi approfonditi condotti dal regista che lo hanno portato a raccontare solo alcuni aspetti della sua vita (la famiglia, l’attività politica e naturalmente anche quella criminosa, oltre al suo profilo caratteriale) e non l’intera biografia. Ne viene fuori un capitolo di un classico “romanzo criminale”, visto attraverso la lente stroboscopica del cinema di genere (dal thriller al sentimentale, passando per il drammatico) che consente al film e al plot di cambiare pelle e colore. Il tutto frazionato da una narrazione che sposta svariate volte il fuoco dal personaggio di Escobar all’odissea umana vissuta dal protagonista Nick, un giovane surfista statunitense che un giorno ha la sventura di incontrare e innamorarsi proprio della nipotina prediletta del noto narcotrafficante. Se da una parte il suddetto frazionamento serve a dare una chiave non biografica all’operazione, dall’altra il continuo e impreciso cambio di fuoco influisce sulla scorrevolezza del racconto, creando momenti di indecisione che causano a loro volta fasi di stallo drammaturgica. Questo è a nostro modesto parere il vero tallone d’Achille di un film che altrimenti avrebbe scalato vette più alte rispetto a quello raggiunte, appena al di sopra della sufficienza.
Francesco Del Grosso