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End of the World

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End of the World di Monika Pawlucz (Koniec swiata, Polonia 2015)
VOTO: 8

Viaggio al termine della notte

Secondo il calendario Maya, il 20 dicembre del 2012 il mondo e i suoi abitanti avrebbero dovuto conoscere la parola fine. Fortunatamente il game over per il pianeta Terra e per la razza umana non è arrivato, anche perché se la tanto temuta profezia si fosse avverata, allora il film che ci apprestiamo a recensire non sarebbe mai stato prodotto e noi non saremmo qui a parlarvene. Vi starete chiedendo come mai siamo andati a ripescare a tre anni e passa di distanza quella fatidica data; ebbene la risposta è molto semplice ed è legata a una delle opere più convincenti tra quelle presentate nella sezione competitiva “Visti da vicino” del 34° Bergamo Film Meeting. Ovviamente non si tratta del blockbuster catastrofico di Roland Emmerich dal titolo 2012, ma di End of the World di Monika Pawluczuk.
La regista polacca riavvolge il nastro del tempo per riportare lo spettatore a quella notte che non avrebbe mai dovuto vedere la luce del giorno dopo. Siamo in quel di Lodz, città della Polonia centrale. La profezia incombe, mentre il buio fitto e avvolgente è già calato da qualche ora. Un conduttore radiofonico raccoglie i racconti dei cittadini che esprimono le loro preoccupazioni e le loro aspettative su ciò che potrà accadere da lì al termine del countdown. Mentre la notte avanza, le chiamate continuano ad arrivare, rivelando la lotta delle persone contro le proprie paure. Le voci della notte si intrecciano con le chiamate al centralino del pronto soccorso e con l’andirivieni di una tassista, dando origine a una panoramica sonora di una città buia che si avvia alla distruzione.
La Pawluczuk circoscrive temporalmente e geograficamente il racconto a un microcosmo urbano brulicante, spiato da una moltitudine di occhi digitali che catturano simultaneamente eventi che finiscono poi per intrecciarsi sul sedile posteriore di un taxi. La narrazione si muove su tre piani topografici principali prima di confluire nello stesso luogo, nel medesimo istante. Sullo sfondo una cittadina polacca con le sue strade semi-deserte e i palazzi parzialmente illuminati. La gente si è rifugiata in casa in attesa dell’ineluttabile approssimarsi degli eventi. Solo in pochi hanno deciso di sfidare la profezia. L’atmosfera di malessere che si respira è di quelle che lasciano addosso una sensazione di angoscia mista a inquietudine, che non è facile scrollarsi di dosso anche al termine della visione. Ma più che le immagini, destabilizzanti e claustrali, è il mix di parole e suoni a infettare le sinapsi dello spettatore come un virus penetrato in un hardware. End of the World fa parte di quella categoria di film che possono essere fruiti anche ad occhi chiusi, perché il suo aspetto più devastante sta proprio nella capacità di risvegliare paure ataviche solamente attraverso la componente audio. In tal senso, il pensiero, per qualche strano gioco di associazione, torna alla magnetica opera teatrale di Harold Pinter del 1982 dal titolo Victoria Station, che vede un tassista notturno girovagare nella notte mentre è alle prese con un fitto dialogo con misterioso speaker.
È fin troppo evidente che ciò che scorre davanti ai nostri occhi non è il risultato di un instant movie girato in presa diretta. La conferma ci arriva direttamente dai credits che accompagnano il film, in particolare dall’anno in cui questo è stato prodotto, ossia il 2015. Dunque, viene meno il fattore temporale e con esso la contemporaneità con gli eventi storici dei quali si parla che, di conseguenza, sono stati palesemente rievocati e ricostruite attraverso un lavoro di scrittura. Il ricorso a tale processo creativo cambia tutte le carte in tavola, rendendo necessaria un’alterazione e una rielaborazione della realtà. Tuttavia, ciò non ha impedito alla realtà stessa di affacciarsi prepotentemente nella messa in quadro con quel fattore X di imprevedibilità che non può essere deciso preventivamente da nessuno sulla faccia della Terra, nemmeno dal più fantasioso sceneggiatore in circolazione. Torna automaticamente alla mente una frase pronunciata anni fa da Alfred Hitchcock a proposito del cinema del reale: “Nei film il regista è Dio; nel documentario Dio è il regista”. Quanto di più vero.
Per End of the World, l’autrice costruisce un impianto documentaristico basato sui codici e i linguaggi che lo regolano e lo caratterizzano. Non si tratta però di un’espressione pura del suddetto genere perché, al suo interno, si alternano parti di artificio, dove la manipolazione della realtà è evidente (ciò che accade durante la trasmissione radiofonica che, al contrario, esiste veramente), e altre che sono figlie legittime di ciò che ha scelto autonomamente di palesarsi davanti alla macchina da presa senza alcuna forzatura (le telefonate al centralino del pronto soccorso, le riprese delle videocamere di sicurezza del centro di comando della polizia). Per innescare tale processo, la Pawluczuk lascia intelligentemente e furbescamente una porta aperta all’imprevedibile e ciò genera dei frutti inaspettati che spiazzano per la loro potenza e veridicità. Questi si fanno largo nella timeline, alzando in maniera esponenziale il livello di credibilità che altrimenti avrebbe rischiato di scendere al di sotto della soglia minima. Insomma, ci troviamo al cospetto di una docu-fiction, più precisamente a qualcosa che assomiglia moltissimo ai meccanismi che muovono gli ingranaggi narrativi e drammaturgici del filone mockumentary. End of the World è un esempio riuscitissimo di questo modo di incrociare senza soluzione di continuità il vero con il falso.

Francesco Del Grosso

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