Nella gabbia dorata
Esattamente trent’anni orsono, in una sezione collaterale del Festival di Cannes 1992, si affacciava alla ribalta un piccolo film australiano, capace però di attirare subito fervidi consensi sia da parte della critica che tra il pubblico. S’intitolava Ballroom e, dietro un aspetto di favola contemporanea intrisa di desiderio di riscatto, celava in realtà una natura “trasgressiva”, un incitamento a riscrivere le regole per affermare se stessi. A posteriori, in pratica, un manifesto programmatico del suo regista, l’allora trentenne Baz Luhrmann. Il quale utilizzava ogni possibile aspetto cinematografico in proprio possesso al fine di obnubilare lo spettatore. Apportando in tal modo un deciso balzo in avanti verso il cinema del futuro, nonché polverizzando qualsivoglia possibile etichettatura di comodo.
Tre decadi dopo – ed appena cinque, ancorché fondamentali, lungometraggi realizzati in questo lasso di tempo – Baz Luhrmann dirige una sorta di biopic dedicato alla figura di Elvis Presley, per l’appunto intitolato Elvis. E davvero viene spontaneo sovrapporre le due immagini, quella di una leggenda musicale e quella del regista, entrambe “vittime”, ovviamente a diversi livelli, di fraintendimenti artistici. Con il primo che ha visto il suo enorme talento rivoluzionario in campo musicale incanalato in una deriva commerciale pressoché irreversibile; mentre il secondo è tuttora costretto a dibattersi tra accuse di vacuo barocchismo a causa degli aspetti formali di un cinema accusato di essere semplice superficie con pochissima sostanza.
Premettiamo subito, allora, che un’opera come Elvis rende piena giustizia ad entrambi. Cinema allo stato purissimo che mette in scena, travolgendo personaggi e spettatori attraverso il completo sfruttamento di ogni risorsa stilistica, un conflitto atavico non solo prettamente statunitense. Quello che oppone insopprimibile fame di denaro e potere alla più che legittima aspirazione di essere se stessi, cercando un mezzo di affermazione assecondando la propria natura. Sarebbe stato facile cadere nello schematismo moralistico di una separazione si stampo manicheo tra buoni e cattivi. Trappola che Baz Luhrmann – sia in veste di regista che di sceneggiatore – aggira sapientemente affidando il racconto della parabola di Elvis Presley alla voce del suo mentore e manager, il colonnello Tom Parker. Sfaccettata figura di umanissimo “carnefice” interpretata da un quasi irriconoscibile Tom Hanks, al solito in odor di Oscar. Anche per questo motivo Elvis è un lungometraggio capace di generare un senso di vertigine. Lo spettatore viene catapultato sulle montagne russe dell’esistenza di un Mito, fatta di voli ad altezze stratosferiche alternati a rovinose cadute dettate dall’esigenza di infrangere le cosiddette regole del gioco. Uno spettacolo da ammirare ad occhi spalancati e cuore in mano, estasiati e commossi da sequenze serratissime quali ad esempio l’autentica epifania di Elvis Presley – ragazzo bianco poverissimo cresciuto in un quartiere a maggioranza di colore – nei confronti della musica “black”. Tanto da essere scambiato, ascoltando i suoi primi pezzi alla radio, per un cantante afroamericano. Un vero e proprio anello di congiunzione tra musica soul e rock and roll, tanto per comprendere meglio l’importanza del Re nel panorama musicale di ogni tempo.
Allora poco importa se alcuni personaggi – come la moglie Priscilla in versione sin troppo idealizzata – vengono plasmati a piacimento da Luhrmann per esclusivi scopi (melo)drammaturgici. Oltre alla sorprendente performance di un Austin Butler nei panni di Elvis capace di rielaborare il Mito senza imitarlo pedissequamente nella sua vita rapidamente bruciata da innovativo sex symbol e star musicale a sfatto intrattenitore, c’è ben visibile ad ogni sequenza la presenza di un Autore con la maiuscola capace di dominare un materiale impegnativo generando stupore e genuine emozioni. In un’opera perfettamente in grado sia di umanizzare una leggenda che nel contempo innalzarla a vette inarrivabili. Un racconto esemplare che ha trovato in Baz Luhrmann un più che perfetto cantore.
Daniele De Angelis