Un regalo speciale
Il cinema indipendente, si sa, delle volte sta a regalarci delle vere e proprie sorprese. E, malgrado la difficoltà di ottenere una meritata visibilità, malgrado gli evidenti problemi produttivi e di budget, oggi come oggi, fortunatamente, si è portati a dedicare sempre maggiore attenzione alle produzioni indipendenti, molte delle quali realizzate da autori emergenti, spesso addirittura autoprodotte. A tal proposito, particolarmente degno di nota è l’IndieCinema Film Festival, in questo singolare 2020 alla sua prima edizione, dove un nutrito numero di titoli provenienti da tutto il mondo è stato presentato sulla dedicata piattaforma online.
Tra i lavori presenti, particolare attenzione merita il cortometraggio Elephantbird, diretto da Masoud Soheil e proveniente direttamente dall’Afghanistan. Un corto, il presente, piccolo e prezioso, che di fianco a elementi indubbiamente drammatici, di fianco a un’esplicita polemica nei confronti della polizia locale, si distingue anche – e soprattutto – per un gradito tono tra il naïf e il favolistico, con un pizzico di surrealismo al proprio interno.
Ci troviamo, dunque, su di un pullman. Un pullman pieno di viaggiatori che si sposta verso una destinazione non ben identificata. Tra i passeggeri si distingue immediatamente un anziano signore che viaggia con un tacchino. O, come lui stesso dice, con un uccello elefante. Questo è il suo regalo per un nipotino che abita lontano, ma che vuole a tutti i costi rivedere prima di morire. Ma cosa avrà in serbo il destino per lui e per i suoi compagni di viaggio? Quali singolari imprevisti dovranno affrontare tutti quanti?
In questo suo Elephantbird, Masoud Soheil ci mostra una società in cui i diritti fondamentali dell’essere umano non sempre vengono rispettati a dovere. Una società in cui l’abuso di potere sembra, ormai, una cosa all’ordine del giorno. Una società in cui, forse, soltanto restando uniti ci si può in qualche modo salvare.
Non risparmia scossoni emotivi, il presente Elephantbird. Eppure, di fronte a un crudo realismo, un tono volutamente favolistico – ulteriormente enfatizzato anche da una fotografia dai colori prevalentemente pastello e da un andamento narrativo ad hoc – fa da bilanciato contrappunto, a metà strada tra il cinema di Aki Kaurismaki e quello di Abbas Kiarostami, per un piccolo, ma prezioso lavoro che in poco più di un quarto d’ora riesce perfettamente a trasmettere il messaggio inizialmente pensato. Un lavoro, tra l’altro, che sembra non risentire affatto del ristretto budget con cui è stato realizzato.
Ed ecco che, immediatamente, il viaggio iniziale assume d’un colpo tutto un nuovo simbolismo e, senza eccessivi spiegoni o elementi ridondanti, si fa subito immagine fedele di un’epoca – quella contemporanea – e di una società che, malgrado le numerose difficoltà del quotidiano, non ha mai smesso di sognare e di sperare. E di prodotti del genere, si sa, ne abbiamo pur sempre bisogno.
Marina Pavido