Quell’officina nella Pampa
Il reverendo Pearson è un predicatore protestante, un integralista esaltato con anche delle tendenze da santone esorcista. La sua vita consiste nel viaggiare nella sterminata pampa argentina, insieme alla figlia diciottenne Leni che gli fa da assistente, per la sua missione di evangelizzazione, villaggio per villaggio. Per questo la loro è un’esistenza nomade. Questa storia è raccontata in El viento que arrasa (circola anche con il titolo internazionale A Ravaging Wind) presentato ora nel concorso lungometraggi del 33° FESCAAAL, dopo essere passato per i festival di Toronto e San Sebastián. Il film è opera della regista Paula Hernández ed è tratto dal romanzo omonimo della scrittrice Selva Almada.
Ci sono tutte le premesse per un road movie, per un viaggio nel ventre molle del paese, nella campagna argentina sterminata e dalla densità abitativa bassissima. Il modello potrebbe essere quello di Paper Moon, un analogo viaggio di padre e figlia con il genitore che è un venditore di bibbie. Ma il viaggio di Pearson e Leni si interrompe allorché l’automobile va in panne e i due trovano un’officina per strada. La riparazione richiederà del tempo per avere i pezzi mancanti. Il nucleo del film vede così la convivenza dei protagonisti, con Gringo, il corpulento e burbero meccanico, e Tapioca, suo figlio disabile e sfigurato. La stasi dal viaggio diventa un confronto tra le due coppie di personaggi, non esente da tensioni.
El viento que arrasa inizia con un sermone del predicatore infervorato, ritagliato in una striscia nello schermo nero, il punto di vista di Leni che sta guardando il padre da una fessura. Una visione voyeuristica, un punto di vista femminile ma anche una presa di distanza dal materiale trattato. Paula Hernández lavora di sottrazione drammaturgica, evitando accuratamente di sviluppare facili derive drammatiche o di rendere esplicito un qualche messaggio. Non ci sono condanne, prese di posizione dirette. Si limita a impostare dei problemi lasciando il pubblico a risolverli. Quello che le interessa è quella situazione di stasi, quel minimalismo narrativo, dove far lavorare l’introspezione psicologica, nel confronto tra i personaggi, due coppie genitore-figlio. Personaggi che non sono facili e mere funzioni narrative. Viene mostrato il volto umano del predicatore normalmente infervorato, il suo rapporto con la figlia, la quale probabilmente soffre quella condizione, quella mancanza di libertà, alla quale però non si ribella. Forse anche perché crede nelle stesse cose. E grava su di loro la figura della madre, che dicono vivere in Brasile, che è un tabù. Ed è interessante il confronto di Leni con il figlio del meccanico, anche lui imbrigliato, per la sua condizione di disabilità e per il fatto di vivere in un mondo sperduto. Mentre Gringo è un uomo pragmatico, che conduce una vita dura e solitaria, poco incline ad andare incontro al misticismo del reverendo. Esemplare quel momento in cui Pearson è ubriaco e si lascia andare, del resto in vino veritas. Tutto questo in un contesto sperduto nel nulla, fuori dal mondo e dal tempo. Il film sembra infatti collocarsi non nel presente, per il walkman della ragazza e le cassette del reverendo.
Con lo stesso soggetto al cinema potremmo aver avuto anche un horror come Carrie – Lo sguardo di Satana, oppure un film sociale contro l’oppressione di adolescenti con le ali tarpate da genitori retrogradi. Una tensione in tal senso si ha quando la ragazza deve nascondere al padre gli slip sporchi di sangue mestruale. La maledizione del sangue impartita a Eva, come diceva la madre di Carrie. Ma ancora una volta tutto è suggerito e latente. E così il finale: El viento que arrasa potrebbe concludersi come Thelma & Louise. Potrebbe, ma non lo sappiamo. La regista chiude lasciandoci coerentemente nell’indefinitezza.
Giampiero Raganelli