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El príncipe

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VOTO: 5.5

Storia di un giovane principe

Proiettato al Festival #Cineuropa33, El príncipe di Sebastián Muñoz era già stato presentato alla 76º Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – precisamente nella sezione Settimana della critica – dove si era aggiudicato il Premio Queer Lion. La pellicola del cileno Muñoz è facilmente incasellabile nel Prison Movie (genere già numeroso di molte pellicole), per l’evidente ambientazione carceraria, ma come sottolinea il Premio che si era aggiudicato a Venezia, l’aspetto rilevante della storia è il particolare rapporto omosessuale che s’instaura tra il giovane Jaime (Juan Carlos Maldonado) e il maturo Riccardo (Alfredo Castro). Il penitenziario, però, non va recepito come un colorito sfondo della vicenda, ma come il turgido luogo dove possono instaurarsi questi tipi di relazioni, che sono per lo più dettate da sfoghi sessuali che si creano per i soprusi e le privazioni che i condannati patiscono (da altri prigionieri o dalle stesse guardie che approfittano del loro potere).

El príncipe è sceneggiato dallo stesso Sebastián Muñoz assieme a Luis Barrales, ed è tratto da un romanzo poco noto (ma che negli anni Settanta ebbe abbastanza successo) dello scrittore Mario Cruz. Ambientato nel 1970, durante il governo di Salvador Allende (alla fine Jaime sente da una radiolina suo discorso di speranza pronunciato dal Presidente), El príncipe evita il più possibile gli usuali cliché insiti nel Prison Movie, benché alcuni siano inevitabili (ad esempio le prevaricazioni delle guardie), e sin dall’inizio si focalizza sul rapporto che si instaura tra Jaime e Riccardo, che comincia nel modo più violento possibile (la sodomizzazione). Quest’atto è il duro modo in cui il giovane perde la sua verginità, sia a livello di vita carceraria e sia per la sua sessualità. L’azione brutale di Riccardo verso Jaime si rivela essere la effettiva prima presa di coscienza, da parte del giovane, della propria omosessualità (corroborata anche dai flashback che ricostruiscono la sua storia precedente). Riccardo, però, assume anche la fisionomia di un padre, pronto a fargli regali (la chitarre o il giubotto) o a proteggerlo dagli altri carcerati. Riccardo è una figura paterna più vicina, seppure dispotica, rispetto al vero padre, che era sempre assente nell’educazione del figlio. Osservando questa storia, con scene d’amore e possessione omosessuale, torna alla mente il cinema di Fassbinder, nella quale l’omosessualità era un misto di sopruso e di libidine. La differenza, però, è nell’impostazione, perché nel regista tedesco il greve si palpava anche dalla messa in scena fredda e crudele, senza abbellimenti, mentre ne El príncipe si percepisce maggiormente il fattore estetico di composizione. Certamente Muñoz non lesina scene crude di omosessualità (evitando gli aspetti pornografici), ma questa sua impostazione si rivela essere tanto un pregio, per il coraggio di cercare di raccontare in modo non del tutto accomodante la vicenda, quanto un difetto, nello spingere (senza mai giungere a un vero realismo) a tutti i costi verso uno sgradevole effetto, a volte posticcio. Aggiungendo, poi, che la composizione della narrazione con diversi flashback di Jaime non sempre funziona. Su queste pecche, però, va messo in evidenza che Sebastián Muñoz è al suo esordio nel lungometraggio, dopo aver partecipato al documentario collettivo Buenos Aires Rap (2014), quindi ha puntato più verso l’eccesso. Quello di veramente ammirevole e coraggiosa è la prova di Alfredo Castro, attore feticcio di Pablo Larraín, ma visto anche in È stato il figlio (2012) di Daniele Ciprì, che non ha paura di recitare in un ruolo sgradevole e nel mostrarsi nudo.

Roberto Baldassarre

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