La prigione verticale
La cinematografia e i registi baschi hanno dimostrato in più di un’occasione di avere una marcia in più quando si tratta di chiamare in causa il genere. Prima Handia di Jon Garaño e Aitor Arregi e più di recente El Hoyo di Galder Gaztelu-Urrutia lo hanno ampiamente confermato, con quest’ultimo che dopo aver scosso le ultime edizioni di Toronto e del Sitges ha sorpreso anche il pubblico del 37° Torino Film Festival, laddove l’opera prima del regista di Bilbao è stata presentata nel concorso lungometraggi.
In El Hoyo ci ritroviamo catapultati al seguito di un uomo che si sveglia in una cella con una copia di Don Chisciotte della Mancia e un vecchio vicino di letto. Si trova in una prigione verticale fatta di piani con due prigionieri ciascuno attraverso cui una volta al giorno scende una piattaforma zeppa di cibo: più si è sopra e più ci si abbuffa, mentre più si scende più restano le briciole. Sopravvivere e fuggire non sarà facile. Alla proiezione l’ardua sentenza, nel frattempo è sufficiente la sinossi per capire che la visione che ci apprestiamo a fare è destinata a lasciare il segno nell’iride del fruitore. Una visione che consigliamo agli amanti dei sapori forti e che sconsigliamo invece ai delicati di stomaco e a chi non è in grado di reggere un escalation di violenza destinata a spargere sulla scena ettolitri di sangue, arti mozzati e brandelli di corpi straziati nelle carni.
Non siamo in presenza di torture porn, ma di un tipo di fantascienza distopica che cambia strada facendo connotati diventando un action in stile carpenteriano. Il risultato è un serrato B-movie politico che punta il dito contro i vizi, i mali e i lati oscuri della società odierna, incapace di condividere le risorse a disposizione, di accogliere l’altro e di provare a mettere in atto un qualche tentativo di solidarietà spontanea. Il cinema di genere, dunque, si fa nuovamente veicolo di argomentazioni dal peso specifico rilavante e al contempo “lama affilata” per sferrare attacchi.
Letto il plot sembrerebbe palesarsi la possibilità di un incrocio genetico tra The Cube, il primo Saw e il filone carcerario, con la claustrofobia e l’unità topografica circoscritta ma scomposta su più livelli a dettare le regole della lotta per la sopravvivenza alla quale è costretto il protagonista e tutti gli altri detenuti. Sotto scorre una sottile ma efficace linea mistery che alimenta uno script zeppo di idee, picchi di tensione e di inneschi destinati a produrre sullo schermo scene di forte impatto.
Francesco Del Grosso