Un vetusto succhiasangue
Parafrasando il pensiero di Karl Marx, la reiterazione ossessiva di una tragedia non può che declinare nella farsa, prima o poi. Su questo deve aver riflettuto a fondo Pablo Larrain, prima di dare alla luce il suo El Conde, visto in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2023 e prontamente approdato sulla piattaforma Netflix, deus ex machina del progetto.
Metafora semplice e spontanea, per questa commedia nera (molto nera) che satireggia su una figura entrata nella storia cilena dalla porta più sbagliata possibile: Augusto Pinochet Ugarte è un vampiro. Un succhiasangue – come afferma a più riprese la tragicamente esilarante voce narrante femminile del film, che ne magnifica le imprese – affamato non solo di sangue e cuori giovani, che beve tutto d’un fiato dopo averli frullati; ma anche e soprattutto di potere e denaro, vista l’enorme quantità di beni accumulati quando esercitava la propria dittatura in Cile. Larrain, inizialmente, ci presenta un tiranno stanco e disilluso, incapace di comprendere come la gloria sia elemento effimero. Desideroso di porre fine alla sua esistenza, nonostante l’immortalità vampiresca, vive con la moglie ed il fidato (non troppo, come si appurerà in seguito nella narrazione…) maggiordomo di origine russa. I suoi cinque figli approdano al capezzale del padre, ovviamente molto più interessati al lascito economico che per motivi affettivi. A sparigliare ulteriormente le carte arriva anche una giovane suora pratica di esorcismi, Carmen, incaricata di liberare il tiranno dal male che lo affligge ma presentatasi sotto spoglie di contabile del patrimonio di famiglia. Della quale il tiranno si invaghisce, trovando nuove motivazioni per continuare a vivere ed eseguire turpi piani.
Il fantasma di Pinochet ha spesso aleggiato nella filmografia di Larrain. In opere indimenticabili quali, ad esempio, Tony Manero (2008), Post Mortem (2010) e No – I giorni dell’arcobaleno (2012), quest’ultimo incentrato sul referendum che ne sancì una pesantissima sconfitta politica. Una presenza immanente e incombente, di quelle con cui l’Arte deve obbligatoriamente fare i conti, anche per esorcizzarla in maniera definitiva. Fatto peraltro mai accaduto con determinate figure della nostra Italia.
Ne El Conde (Il Conte, ma non Dracula…), finalmente, Larrain affronta di petto Pinochet. Un uomo già abbondantemente giudicato dalla Storia ma di fatto sfuggito alla giustizia terrena. Superfluo dunque un lungometraggio che ne illustrasse gli innumerevoli crimini; meglio trasfigurare il personaggio in chiave horror permeato d’ironia color pece. Ecco allora un’opera in cui si sorride a denti strettissimi, dove gli echi shakespeariani si stemperano in un’osservazione antropologica – tipica del cinema di Larrain – sulle incorreggibili miserie umane. Sordide ipocrisie, tradimenti passati e presenti, denaro come unica stella cometa da seguire assieme al sangue dei cittadini. Il quadro è completo, presentato in un bianco e nero che, oltre ad astrarre il quadro e fornire il tutto di una patina di autorialità, si adegua perfettamente all’umore generale dentro e fuori lo schermo. Non rappresenta affatto la catarsi definitiva, El Conde, nei confronti dell’artefice di una delle dittature più sanguinarie che siano mai esistite. Semmai un feroce sberleffo, consapevole che la Storia sarà destinata a ripetersi di nuovo nel corso del tempo, come ben testimonia un colpo di scena finale (da non svelare) secondo il quale la stirpe di “mostri” non potrà mai avere fine. Unica arma, quella di un’ironia appunto in grado di smontare una figura per qualcuno ancora ammantata dal mito, in possesso sia dell’artista che della gente comune.
Pur con qualche pausa narrativa El Conde è un film a proprio modo esemplare, con una sceneggiatura brillante – non a caso premiata a Venezia – ed un cast perfetto. In cui spicca l’attore feticcio di Larrain Alfredo Castro, nella parte del vile maggiordomo di origine russa, in apparenza fedele al padrone ma in realtà di indole doppiogiochista. Personaggio ideale in cui specchiare una natura umana sempre pronta a salire sul carro dell’opinabile vincitore per poi scendere non appena la stella tramonta. E quella di Pinochet, purtroppo, ha brillato in Cile sin troppo a lungo, grazie a molteplici complicità.
Daniele De Angelis