Parigi val bene un DJ
A volte ritornano. E lo fanno in estate. Distribuito con una certa superficialità a metà agosto, quando in genere nelle sale trova spazio qualche fondo di magazzino e si prepara semmai l’uscita del blockbuster americano di turno, dalle spalle ovviamente coperte, Eden della giovane e lanciatissima cineasta francese Mia Hansen-Løve è una classica sorpresa d’autore che avrebbe meritato, probabilmente, date più consone alle potenzialità e al target naturale del film. Anche perché, in occasione dell’ultimo Festival di Roma, erano già arrivati ottimi riscontri da parte del pubblico festivaliero e di una fetta consistente della critica, per questo lungometraggio ammaliante e ipnotico come le musiche che qui fanno da filo conduttore.
Tra i talenti facilmente attribuibili a una cineasta così promettente (autrice in precedenza di Tout est pardonné, Il padre dei miei figli, Un amore di gioventù), vi è senz’altro la capacità di creare atmosfere, produrre vibrazioni. Sì, il cinema di Mia Hansen-Løve sembra quasi accarezzare le parabole dei suoi personaggi, vibrando intorno alla precarietà dei loro sentimenti e stati d’animo. Ma con un disincanto di fondo. E la costante di tali narrazioni votate all’ellisse, a vistosi salti temporali, a distacchi e ricongiungimenti da metabolizzare in tutta fretta, sembra essere quel mood malinconico che affresca in chiaroscuro qualsiasi relazione sentimentale, allontanandola mirabilmente tanto dagli intellettualismi tipici di certo cinema francese che una empatia troppo scontata e posticcia.
In Eden la regista ha scelto un campo d’indagine particolarmente affascinante: quello della vivace scena musicale parigina degli anni ’90, con le sue successive evoluzioni (e involuzioni). Più precisamente l’ambiente così peculiare della musica elettronica, col progressivo approdare in terra transalpina delle nuove tendenze della disco-music, di improvvisate fanzine musicali, dei locali di grido, delle folli serate da chiudere magari in un rave, di qualche sparuto pioniere della musica garage. Ecco, tra costoro c’è anche la coppia di DJ formata dal protagonista Paul (un eccellente Félix de Givry) e dal suo amico di sempre, ossia i Cheers, la cui parabola diventa nel corso del film sempre più evocativa e rappresentativa di esistenze in continuo divenire, ma sul punto di crollare da un momento all’altro: le effimere stagioni di successi e trasferte americane, gli amori usa e getta, le storie un po’ più serie che finiscono quando meno te l’aspetti, la coca, l’erba, i debiti, le feste sregolate, gli amici che non ce la fanno più e s’ammazzano, l’ebbrezza di nuove scoperte musicali, lo spettro di dover abbandonare tutto per poi ripiegare su una mesta vita d’ufficio.
Tra i punti di vista più riusciti del film vi è la naturalezza con cui scorrono in parallelo le esperienze di chi è votato da subito alla provvisorietà, a sogni non destinati a concretizzarsi in modo duraturo, come avviene appunto per i Cheers, e quel successo internazionale declamato quasi con modestia da realtà come i Daft Punk, il cui peso specifico nell’economia di Eden è pari alla sorniona, delicata pervasività con cui il mantra One more time si insinua nella colonna sonora, aspirando a tramutarsi in inno generazionale.
Stefano Coccia