Al termine della contestazione
Dopo Dennis Hopper, anche Peter Fonda. Rimane solamente Jack Nicholson – al quale ovviamente auguriamo lunghissima vita – a testimoniare l’esistenza di un’opera spartiacque come Easy Rider (1969). Poi quest’ultima sarà solo un cimelio storico, da conservare in qualche museo di Storia del Cinema, venerata da un numero di adepti nostalgici destinato, per ovvie ragioni temporali, ad assottigliarsi sempre di più.
In realtà, lo sappiamo tutti, Easy Rider già da qualche tempo appartiene ad un passato ben più remoto dei suoi effettivi cinquant’anni di età. Colpa del nostro presente. Di un’epoca che ne ha lavato via lo spirito con un colpo di spugna inflitto con incommensurabile cinismo e privo di sensi di colpa. Non al film in sé ma al significato profondo che quell’indimenticabile lungometraggio ha sempre veicolato. La necessità di andare controcorrente. Il bisogno fisiologico di contestare l’autorità vigente. Senza stare a discutere se i modi fossero giusti oppure sbagliati, poiché ognuno è libero di formarsi la propria opinione in proposito; comunque proponendo un’alternativa allo status quo imperante. L’Arte in generale e il cinema in particolare – dato che di questo noi ci occupiamo – avevano il compito di scuotere le coscienze, mobilitare le masse, risvegliare l’opinione pubblica. Altri tempi, si dirà. C’era il Vietnam. C’erano migliaia di giovani mandati al macello senza una ragione valida. Come spesso accade nelle “piccole” guerre unidichiarate. Tutto corrispondente al vero. Ma i conflitti, meno visibili, si consumano anche oggi. Tutti i giorni. Gente che muore alla disperata ricerca di quei granelli di benessere che nel civilissimo occidente si difendono con ogni sforzo possibile e immaginabile. Non ci si dovrebbe chiedere allora il perché dei muri vagheggiati da Trump, dei porti chiusi di Salvini, degli isolamenti strategici di Putin, dei diktat autoctoni dei vari Orbán e Kaczyński sparsi per quello che resta di un’Europa a dir poco disunita nonché (volutamente?) incapace di affrontare qualsivoglia problematica che non sia di mera natura economica. Dovremmo invece domandarci per quale motivo non esiste una risposta politica a tali istanze, perché non prende forma una forma di protesta generalizzata a difesa di quei valori da ritenere indispensabili ai fini di una convivenza civile non solo tra persone di etnia differente ma anche nell’ambito di popolazioni del medesimo paese, dato che di regole comuni da condividere ci sarebbe sempre un insopprimibile bisogno.
Peter Fonda, altra immagine iconica dopo quella di Rutger Hauer, lo ricorderemo sempre in sella alla sua moto, a sfrecciare attraverso quelle highways statunitensi dove i confini rappresentano solamente uno stato mentale da oltrepassare di slancio, in piena velocità. Lui e Dennis Hopper, se esiste una qualsiasi forma di giustizia divina, ora saranno liberi di correre in un mondo in cui la diversità non esiste più, cancellata da un modo di vivere, magari discutibile quanto si vuole, ma che non la contempla. Sterili idealismi, forse. Irraggiungibili utopie. Eppure Easy Rider voleva dire proprio questo. Indicare cioè una possibile via esistenziale da percorrere. Ed è un peccato che tale strada sia stata abbandonata sembrerebbe in modo irreversibile. Tutti fermi ad attendere semplicemente che gli eventi facciano il loro corso, non facendo nulla per modificarli.
Peter Fonda, Easy Rider, la controcultura, rappresentano una memoria storica da condividere, cinefila e non. E nel nostro piccolo cercheremo sempre di mantenerla viva, provando ad illuminare quei percorsi cinematografici altrimenti destinati a rimanere nel buio di un oblio indeterminato. Non ci chiamiamo CineClandestino per caso, del resto.
Daniele De Angelis