Vengo da Salemme, senza ridere e senza piangere
In realtà bisogna essere onesti: la visione dell’ultimo film di Vincenzo Salemme qualche genuina risata ha saputo regalarcela. Perciò la facezia con cui abbiamo voluto intitolare il pezzo, con buona pace della biblica Gerusalemme, potrebbe essere intesa così: un voler né ridere né piangere di fronte all’ennesimo capitolo di una filmografia che rimane su livelli modesti, sotto il profilo registico, ma che conserva un suo perché rispetto ad altri episodi della produzione cinematografica nostrana più commerciale, con cui ci siamo dovuti recentemente confrontare. Basti pensare all’ultimo, deprimente Pupi Avati, oppure all’imbarazzante Fratelli unici con Bova, Argentero e la Crescentini, per non parlare del caso-limite rappresentato da Paolo Ruffini. In …e fuori nevica, ci sono diversi elementi, invece, che ci fanno guardare con una punta di simpatia alla commedia diretta da Salemme, sulla falsariga del testo teatrale da lui scritto nel lontano 1994 e messo in scena più volte, in quegli anni, con un riscontro discreto.
Tutto sommato c’è una dose di affetto per i personaggi e per l’ambientazione partenopea, in quest’operazione di riscrittura filmica compiuta all’insegna dell’amarcord, che strappa volentieri qualche sorriso allorché scorrono le immagini di un “ventennale” sui generis, impostato sul recupero di quella comicità cabarettistica un po’ datata ma di sicura presa sul pubblico. Salemme interpreta un protagonista la cui immaturità assume toni decisamente coloriti, naif, dopo la perdita del lavoro su una nave da crociera e il conseguente ritorno a Napoli, allorquando viene ripristinato il contatto con altri due fratelli, diversissimi tra loro ma ugualmente problematici. Dall’ormai consolidata bravura di Carlo Buccirosso e ancor più da quella che Nando Paone, davvero irresistibile nel mettere in scena i tic e le manie del fratello un po’ schizzato, riesce ad esprimere sia con la voce che con una sfaccettata gestualità, trova conferma quanto già pensavamo sul conto dell’attore/regista campano; e cioè che le cose migliori escano fuori dalla sua interazione con caratteristi di prim’ordine. Equivoci, freddure, sketch alquanto elementari ma immediati e veraci. Tant’è che persino il solitamente odioso Panariello, abbandonando la sua toscanità scontatissima in favore di una forzata ma buffa calata romanesca, riesce a spiccare un po’ di più…
Restano i classici limiti di scrittura ravvisati altre volte nei film di Salemme, con sub-plot sentimentali che andavano sviluppati con maggior coerenza (peccato per il personaggio della bella e sorridente Margareth Madè) e collegamenti tra uno sketch e l’altro zoppicanti se non proprio privi di logica, a riprova di una cura del montaggio praticamente assente. L’autore si rivela per l’ennesima volta privo di un gran senso del cinema, sebbene questo in parte dispiaccia, perché nel desolante panorama odierno la sua pittoresca comicità un qualcosa di genuino riesce comunque a preservarlo.
Stefano Coccia