La volontà non basta
La Russia non è una terra facile. I suoi abitanti sono stati forgiati più che formati dalle durezze della loro patria. Il che li ha resi granitici nel corpo e nello spirito. Con la volontà vanno avanti in un curioso miscuglio di fatalismo e spirito indomito. Affrontano tutto ciò che la sorte riserva loro senza deflettere, assorbendo l’urto e continuando per la propria strada. La Seconda Guerra Mondiale con le atrocità che portò in dote ai russi e il modo cui essi risposero è solo una delle molte conferme di questo loro spirito. In particolare la vicenda bellica di Leningrado e dei suoi abitanti è esemplificativa.
In quella Leningrado vive Iya (Viktoria Miroshnichenko), fa l’infermiera, è molto timida, e soffre di una sindrome da stress che a volte la blocca come una statua. Con lei va a vivere l’amica Masha (Vasilisa Perelygina), molto più spregiudicata, una volta tornata dal fronte.
Intorno a queste due interpreti, premiate con il premio per la Miglior Attrice al 37° Torino Film Festival, il regista Kantemir Balagov costruisce un dramma, Dylda (titolo italiano La ragazza d’autunno, mentre quello internazionale è Beanpole), che ci parla dell’animo russo e della volontà. Attraverso una struttura rigorosa ma non asettica, nel quale il dramma è geometrico, tenuto sotto controllo e non c’è spazio per patetismi, Balagov da forma ad una vera e propria allegoria sotto le vesti di dramma storico. Iya e Masha diventano così esemplificazioni della duplice natura dello spirito russo ed i personaggi che gravitano loro intorno divengono essi stessi personificazioni di vari aspetti della natura e del mondo russi. Questo universo allegorico ci viene mostrato da regista in una maniera a metà tra l’indagine giornalistica, con una camera a mano che segue i personaggi o si posiziona quasi in appostamento, fino a concentrarsi su primi e primissimi piani che paiono volerne penetrare fino le più riposte pieghe dell’animo, e tableux vivants di raffinata composizione.
A quest’ultimi, in particolare, conferisce un’atmosfera particolare, da quadri a olio dell’Ottocento, l’ampio uso che viene fatto della luce naturale, delle candele e del fuoco di camini e accendini.
Un cinema dei massimi sistemi che alle immagini consegna gran parte del proprio messaggio, eppure i dialoghi non sono affatto secondari nella pellicola. Costruiti più come discorsi interiori, confessioni e interrogatori di brutale franchezza, i dialoghi contribuiscono ad esplicare quanto le immagini già raccontano. La vera comunicazione tra i personaggi e con il pubblico avviene tramite sguardi, essi costituiscono la vera poetica del film, i dialoghi tuttavia ne sono l’utile messa in prosa.
Si può forse rivedere qualcosa dell’opera di Sokurov nel lavoro di Balagov suo allievo, ma è indubbio che ci troviamo davanti all’opera personale di un autore di grande talento e forte personalità, che non teme di confrontarsi con temi di portata universale e riesce a farlo senza scadere nel didascalismo, mantenendo invece una grande levità che permette alla pellicola di elevarsi fino all’iperuranio portando con sé lo spettatore.
Luca Bovio