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Don’t Look at the Demon

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VOTO: 6

I feti essiccati della Malesia

La didascalia iniziale di Don’t Look at the Demon non lascia alcun dubbio, sull’origine della maledizione di turno. “KUMAN THONG: i feti essiccati di bambini morti, quando erano ancora nell’utero materno. Si diceva che gli stregoni avessero il potere di evocare questi bambini nati morti e di adottarli come figli per sfruttare il loro aiuto nelle loro imprese.
Considerando come si evolverà strada facendo lo script del lungometraggio, si potrebbe persino considerare questo avvertimento inziale, scherzosamente, uno “spoiler”. Ad ogni modo l’esotismo di tale horror non ci è affatto dispiaciuto. Ed è comunque un primo indizio delle vicende biografiche dell’autore: ovvero Brando Lee (che con una N in più nel nome sarebbe già morto, per restare in ambito orrorifico), nato alla periferia di Kuala Lumpur, trasferitosi più avanti in America così da portare avanti gli studi al Columbia College di Hollywood, per poi ritornare in Malesia dove i Brando Studios B&L CreaLve da lui creati vanno proponendo diversi progetti televisivi e cinematografici, destinati in primis alle sale del circuito locale.

Appassionato di film di genere sin dall’adolescenza, Brando Lee con Don’t Look at the Demon ha dato vita a un horror indubbiamente derivativo, che guarda tanto alla specificità del folklore asiatico che alle più svariate tendenze in atto negli Stati Uniti. Quindi non particolarmente originale, per usare un eufemismo, ma sufficientemente curato nelle atmosfere (a dir poco sinistre, compreso il prologo ambientato in terra americana) e nella caratterizzazione dei personaggi.
Giusto per introdurre la cornice narrativa e le figure in gioco, protagonista è Jules (impersonata con l’ormai consueto carisma dalla Fiona Dourif ammirata tra grande e piccolo schermo in Tenet, La maledizione di Chucky, The Master, Shameless, The Blacklist), giovane medium sopravvissuta a un grave trauma infantile e arruolata ora in un team anglosassone di investigatori del paranormale, che hanno dato vita in America a un programma di successo le cui nuove puntate, guarda un po’, vengono registrate proprio in Malesia. Tutti a caccia (assieme a una guida del posto) di case infestate e di qualche oscuro rituale che si leghi alle tradizioni locali, descritte qui come impregnate di spiritualità buddista ma all’occorrenza anche di riti stregoneschi e magia nera. Invitati da Ian e Martha a risolvere un caso nella loro isolata magione a Fraser’s Hill, troveranno infine la casa infestata che cercano. Ma sarà molto più infestata di quei luoghi, le cui presenze sono abituati a gestire…

Tentativi di dominare razionalmente l’occulto e farne programmi televisivi. Possessioni che affliggono il corpo e lo spirito delle povere vittime. Feti morti usati come empi simulacri. Case coloniali su cui poggiano maledizioni vecchie di decenni. Sinistre credenze del sud-est asiatico e monaci buddisti in grado (ma fino a un certo punto) di contrastare un Male atavico. Evocazioni fuori controllo.
C’è tanta carne al fuoco, in Don’t Look at the Demon. Non sempre Brando Lee dimostra di saper maneggiare un materiale narrativo così magmatico con l’opportuna accuratezza, perdendosi un po’ ad esempio nel convulso, beffardo finale; ma la visione del suo terrificante lungometraggio pullula comunque di sapidi spunti e di scene girate con una certa maestria.

Stefano Coccia

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