Disarmonia nel Donbass
Una nuova situazione balcanica o una nuova Palestina. La guerra del Donbass che sta portando a uno stato di frammentazione estrema l’Ucraina orientale, di guerra fratricida che contrappone filo-russi e filo-ucraini, indipendentisti e nazionalisti, è oggetto dell’ultimo film di Sergei Loznitsa, dal titolo appunto Donbass, presentato nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes 2018. Se è difficile per noi comprendere le motivazioni di un conflitto che non è mediaticamente molto gettonato, per il regista ucraino la presa di posizione antirussa sembra netta, non ha paura di sporcarsi le mani e non essere obiettivo.
Due suggestioni dai film precedenti tornano in quest’ultimo film. In The Event, documentario sul putsch fallito nell’Unione Sovietica del 1991, in un’adunanza in piazza di resistenza contro i golpisti, questi venivano additati come ‘fascisti’ da chi arringava la folla. La cosa suscitava perplessità tra il pubblico della Mostra di Venezia, dove il film fu presentato. Come potevano essere definiti fascisti coloro che si presentavano come i restauratori dell’ortodossia sovietica? Il concetto di fascista, in senso lato, può essere molto relativo, a maggior ragione nella lingua russa, e presumibilmente anche in altre della galassia post-sovietica, dove la parola ha assunto un significato più ampio dopo la Seconda guerra mondiale, indicando genericamente il nemico, il cattivo, il villain. Così in Donbass sono le fazioni opposte a darsi rispettivamente del fascista. In Austerlitz, Loznitsa mostrava una folla becera farsi i selfie visitando i campi di concentramento nazisti. L’autoscatto via cellulare, segno della dabbenaggine e superficialità contemporanee, torna in Donbass, dove apparecchi mobili e impianti elettronici si vedono spesso; in una scena, tra le tante, atroce, quella del militante filoucraino che viene prima messo alla gogna, ovviamente definito ‘fascista’, e poi sottoposto a linciaggio da una folla che è accorsa, facendosi anche i selfie con il progioniero brutalizzato e terrorizzato. Ma a essere fascisti, nell’accezione della lingua italiana, sono quelli che perpetuano la giustizia sommaria, che brutalizzano un prigioniero, a prescindere da quali possano essere le sue eventuali colpe. A questa scena ne segue un’altra, raccordata secondo uno schema che il film adotta almeno fino a un certo punto, come vedremo, di un matrimonio incredibilmente sfarzoso e trash, dove peraltro il marito assomiglia vagamente a Putin, tra filorussi, al suono dell’inno nazionale della Nuova Russia. E a tale ridicola cerimonia partecipano anche alcuni che hanno preso parte al linciaggio nel momento precedente. Sono due scene consecutive che rappresentano il punto cruciale del film, e segnano la presa di posizione netta del regista.
Ma il vero punto di vista morale e politico dipende, ce lo insegnava Godard, da come si colloca la macchina da presa, e di questo Loznitsa è perfettamente consapevole. Il film è strutturato in sketch, che passano da momenti di estremo realismo drammatico, esplosioni, vittime, posti di blocco, ad altri grotteschi, quasi alla Roy Andersson, ambientati perlopiù in contesti di assemblee o consigli politici, uffici di dirigenti, tra quelli che sono stati istituiti nelle repubbliche autoproclamate: imbonitori che cercano di vendere icone nell’ufficio del politico, cellulari e dispositivi elettronici sequestrati, una secchiata di sostanza marrone lanciata a un deputato nel corso di una seduta di un consiglio. Loznitsa si divincola e intrufola in tutte queste situazioni con la sua macchina da presa che girovaga. E che si mette sullo stesso piano di una troupe televisiva che appare spesso, interagendo in vario modo. Ma nel finale il punto di vista del regista si allontana e guarda in totale, da una certa distanza. Sono stati vittima di un’esplosione dei figuranti ingaggiati per un servizio pilotato. La troupe quindi intervista i testimoni del fatto, chiedendo loro di ripetere al microfono le loro dichiarazioni, una volta accesa la telecamera, per la televisione. Loznitsa si proclama così come detentore cinematografico di una verità che sta al di sopra delle menzogne, e le menzogne delle menzogne; per lui, che è anche un grande documentarista, il cinema di finzione diventa lo strumento di un punto di vista che si arroga come oggettivo e vero, superiore a ogni messa in scena.
Giampiero Raganelli