In cerca di giustizia
Se è un brutto sogno per favore svegliateci. È quanto viene da dire al termine della visione di Domino, l’ultima e suo malgrado mediocre fatica dietro la macchina da presa di Brian De Palma, presentata in anteprima alla seconda edizione del Filming Italy Sardegna Festival e nelle sale nostrane a partire dall’11 luglio con Eagle Pictures. La visione della pellicola ci conferma in via definitiva che ciò che abbiamo osservato sul grande schermo è purtroppo il risultato pessimo che le voci di corridoio avevano tristemente preannunciato. Si fa davvero fatica a digerire il fatto che sia farina del sacco del cineasta statunitense, anche se lui stesso in più di un’occasione ha apertamente negato la paternità dell’opera in questione dichiarando: «Domino non è un mio progetto. Non ho scritto la sceneggiatura. Ho avuto un sacco di problemi coi finanziamenti, non ho mai avuto un’esperienza così orribile sul set. Una gran parte del nostro team non è ancora stata pagata dai produttori danesi. Questa è stata la mia prima esperienza in Danimarca, e quasi sicuramente sarà l’ultima».
L’attesa era davvero tanta per il ritorno alla regia di De Palma, che mancava dagli schermi dai tempi di Passion, ossia dalla bellezza di sette lunghissimi anni. Un letargo, questo, che aveva lasciato presagire un ritiro, scongiurato dalla notizia della messa in cantiere di un film che, con il senno di poi, non sarebbe mai dovuto venire al mondo. La delusione è tantissima nei confronti di un’opera vistosamente deturpata e massacrata dalla produzione che l’ha gettata in un “tritacarne” privandola di oltre mezz’ora. Ora non sappiamo se e in che modo i tagli scellerati siano stati determinanti ai fini dell’infausto esito, ma una cosa è certa: quello che il pubblico vedrà è lontano anni luce dagli standard tecnici e dalla qualità drammaturgica ai quali il regista ci ha abituato in passato. E proprio ripensando alla sua filmografia e alle pietre miliari che la vanno a comporre che si fa veramente fatica a mandare giù un simile boccone amaro.
Preso atto non possiamo però tirarci indietro dall’analisi critica della pellicola in questione, partendo ovviamente dalla fase di scrittura, dalla quale De Palma è stato lasciato fuori a favore di Petter Skavlan. Quest’ultimo ha consegnato nelle mani del collega uno script costruito maldestramente a sua immagine e somiglianza, richiamando in causa modus operandi, schemi, colori e stilemi del cinema del maestro nordamericano. Domino segue la storia di Christian, un poliziotto dell’unità crimini speciali di Copenaghen, che cerca giustizia per l’omicidio di un suo collega. Insieme alla collega Alex, una poliziotta del suo stesso distretto, si imbarca in una caccia all’uomo di carattere internazionale per trovare il colpevole, affiliato ad una cellula danese dell’ISIS. Ben presto i due scopriranno di avere a che fare con un intrigo molto più torbido di quanto potessero immaginare. In una disperata corsa contro il tempo, i due poliziotti dovranno scoprire i pezzi di questo delicato gioco di equilibri e allo stesso tempo salvare le loro vite.
Per la cronaca, il film è un poliziesco sorretto da una linea mistery fragilissima che si scioglie come neve al sole, costretto a virare verso il revenge-movie quando l’architettura thriller inizia a barcollare pericolosamente sino a cedere accartocciandosi su stessa. Una manciata di sequenze come la fuga sui tetti o il lunghissimo epilogo della Corrida offrono alla platea sprazzi di buon cinema, richiamando in parte il tocco di De Palma, tuttavia non sono sufficienti a tenere a galla una scialuppa dalla quale si fa davvero fatica a salvare qualcuno. Il regista dal canto suo non ha potuto e non è riuscito a parare i colpi, tantomeno a salvare il salvabile. Il tentativo c’è stato e le suddette sequenze, almeno sul versante formale, ne sono la dimostrazione. In particolare quella della Corrida è un chiaro rimando a Omicidio in diretta e alla moltiplicazione dei punti di vista tanto caro al regista, ciononostante in Domino non raggiunge la medesima efficacia anche in termini di costruzione della tensione. L’altro marchio di fabbrica di De Palma, ossia la suspence, qui viene in larga parte meno e non è dato sapere quanto le alterazioni nel final cut siano state o no influenti nel suo depotenziamento. Fatto sta che l’accumulo e la detonazione sullo schermo non si avvicinano minimamente ai risultati visti in precedenza, di conseguenza il film ha dovuto rinunciare a un altro ingrediente chiave della ricetta che il buon De Palma è solito offrire al suo pubblico. Non ci resta dunque che dimenticare il prima possibile, pensando a Domino come a un incubo ad occhi aperti da archiviare.
Francesco Del Grosso